ACCABADORA
di Michela Murgia
Stupendo.
Sotto l’aspetto concettuale quanto sotto il profilo drammaturgico.
Intanto è bello il titolo, così misterioso, arcano e suggestivo, che quando ci viene spiegato non può che stregarci ancora di più.
L’Accabadora, infatti, è colei che finisce. L’ultima madre, che ti dà la morte quando della tua vita non è rimasto che il simulacro, che però ti inchioda alla sofferenza.
E subito ti accorgi che la storia è ancora più affascinante e sostanziosa di quanto promette: corteggia il romanzo di formazione ed è ricca di risonanze, di realtà sottese, pregna di quella umana pietà che trascende le certezze rigide dei dogmi.
Ci sono punti in comune con “L’amica geniale” di Elena Ferrante e con “L’Arminuta” di Donatella Di Pietrantonio, ma il mondo, questa volta, è quello sardo, analogo, ma completamente diverso. La lingua è più ruvida, più corposa, con picchi lirici che sanno di sortilegio e rilucono di verità, ma soprattutto, come è evidente, le tematiche sono anche altre, e richiamano campi semantici diversi, più complessi, indefiniti, capaci di sostenere la narrazione da soli, ma comunque intersecati da vari sentimenti, dubbi, pulsioni e avvenimenti.
E, non l’avrei immaginato, persino da lampi di inusitata poesia.
Dietro l’apparenza grezza percorsa da sottili asperità, un romanzo estremamente raffinato, che denota spirito arguto e rara sensibilità.
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