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venerdì 28 aprile 2017

Tutto collima

PICCOLE GRANDI BUGIE
di Liane Moriarty


Ho finito la Mini su Sky Atlantic, Big Little Lies, quindi ho potuto leggere il romanzo da cui è stata tratta senza che MPM si sentisse tradito o abbandonato.
Ebbene, fino al sesto episodio e, in parallelo, fino a pagina 330 circa del libro, avrei dichiarato spassionatamente di preferire la Serie Tv. Le differenze mi sembravano trascurabili, la struttura simile, solo che la storia, semplicemente, mi piaceva di più raccontata attraverso la cinepresa, che con il solo ausilio delle parole, tanto più che, nel complesso, la vicenda mi risultava più panoramica, arricchita com’era da digressioni e particolari, laddove di norma accade l’inverso.
Tuttavia, conclusi entrambi, devo rivedere le mie posizioni.
Intanto, oltre alle aggiunte e alle modifiche veniali, nel prodotto televisivo sono presenti gravi omissioni che, se non arrivano a distorcere il senso della trama, comunque rendono incomprensibili alcuni passaggi, mentre altri appaiono addirittura vergognosamente sleali (l’inizio, soprattutto, e ciò che lascia intendere).
Nel romanzo, invece, tutto collima. I colpi di scena sono genuini e ben preparati e, in generale, seppur “meno artistica”, la vicenda viene costruita in modo ineccepibile, giocata sui meccanismi della narrazione, ma senza vili imbrogli.
E se fino, appunto, a pagina 330 mi è parso di rivivere la Mini raccontata da un altro affabulatore, sia pur spogliata di musiche, parentesi e con qualche ruolo scambiato, le ultime cento pagine abbondanti sono state indispensabili per colmare lacune e buchi narrativi (dall’agnizione di Jane alla reazione di Bonnie, passando per la vittima dell’omicidio, che nel libro sono perfettamente logiche e spiegabili, mentre nella serie mi sono sembrata gratuite, se non truffaldine). Questa volta, tra l’altro, è nel romanzo, che tuttavia risulta assai meno dispersivo, che fioccano i dettagli in più, descrivendo, oltretutto, l’epilogo in modo meno lirico ma più realistico, complesso e soddisfacente e spingendosi fino ad un anno dopo la serata quiz (nella Mini non si capisce perché diavolo venga chiamata serata trivia quando piuttosto pare un mix tra karaoke, cocktail party e festa in maschera, spacciata da raccolta fondi).
Al di là di ciò, e della patinatura da best seller, il romanzo è ben scritto, fluente, ma simpatico (quanto mi ha divertita l’espressione “oh, calamità!”), e i personaggi sono sfaccettati e rappresentati con efficacia, benché, bisogna riconoscerlo, dopo la Serie Tv sia quasi impossibile prescindere dalle magistrali interpretazioni delle attrici che hanno dato loro il volto, conferendo altresì a protagoniste e comprimarie nuove risonanze.

giovedì 27 aprile 2017

Le regole non scritte del Liceo

TREDICI


Tredici ragioni per cui uccidersi. Tredici destinatari (di cui uno doppio). Tredici episodi, per questa Serie Tv che se avessi recensito attorno all'ottava puntata avrei definito stratosferica, ma, arrivata alla fine, mi strappa solo un più tiepido ben strutturata.
Lo spunto – diciassettenne suicida che invia tredici audiocassette in cui spiega perchè a compagni ed ex-amici coinvolti – è eccezionale, le tematiche (depressione, bullismo, suicidio, social, amicizia) sono attuali e stimolanti, i dialoghi incisivi, gli interpreti in gamba (specie i due protagonisti, Clay e Hannah, Dylan Minnette e Katherine Langford, dotati di profondità e spessore), la costruzione della trama e la regia ottimi ed efficaci, specie grazie alla sovrapposizione di presente e passato e ai vari indizi e anticipazioni seminati un po' ovunque. Gli stessi adolescenti vengono resi in modo doloroso e spietato, ma autentico, che è riuscito in pieno a trasportarmi ai tempi del Liceo, alle sue regole non scritte, ai conflitti e ai sentimenti assoluti, vissuti con un'intensità totale e implacabile, quasi priva di sfumature...
E allora che c'è che non va?
Che ad un certo punto – a partire, per quanto mi riguarda, dalla faccenda del cartello stradale – la sceneggiatura si perde, si sfalda, diventa pretestuosa. Si formano crepe che divengono enormi buchi narrativi, guastando tutto.
Pazienza per la prevedibilità dei colpi di scena finali. Sono coerenti, e la circostanza di averli intuiti in anticipo non mi ha guastato il trauma di viverli. Il neo – grosso e peloso – è dato semmai proprio dalla farraginosità dei loro presupposti, di alcune premesse scarsamente plausibili... 
Anche così, la Serie è comunque interessante e coinvolgente, tanto che l'ho vista alla velocità della luce... Però, se decolla da subito, poi si appiattisce su un giudizio buono, ma non esaltante. Peccato.

P.S.  
Scoperto che è stata tratta dell'omonimo libro di Jay Asher, ho ordinato il romanzo in tutta fretta... Vi saprò dire.

mercoledì 26 aprile 2017

Sempre più cuori infranti

CHIATTONE REVENGE


E' una cosa che ho notato nelle sitcom degli ultimi anni: da “Super Fun Night” di e con Rebel Wilson a “The Mindy Project” di e con Mindy Kaling, passando per “Crazy Ex-Girlfriend” di e con Rachel Bloom. 
Protagoniste ciccione – se non obese – con professioni di un certo tipo (rispettivamente avvocato, ginecologa, avvocato) che, pur irrequiete sul piano sentimentale, e magari simpaticamente (a chi?) grezze, volgari e orgogliosamente ignoranti, fanno strage di cuori, alla faccia delle loro amiche/colleghe carine (del resto, Anna Camp in “The Mindy Project” viene fatta fuori senza spiegazioni circa a metà della prima stagione). 
Le prime puntate, magari, sono pure gradevoli, fresche, innovative ed autoironiche, poi... Poi cominciano inevitabilmente a rasentare l'assurdo. Sempre più cuori infranti, sempre più riferimenti scatologici, sempre più One-Woman-Show, come se tutto dovesse per forza ruotare attorno al loro egocentrismo... Ma perchè? Non dico che una cicciona che disserta sui suoi rumori corporali non possa avere degli spasimanti, ma così tanti e così perdutamente innamorati? Con il suggerimento implicito, oltretutto, che quei pochi che resistono al loro fascino trabordante, magari presi dalla bella di turno, sbagliano e starebbero meglio con loro? Con il messaggio implicito che: chi non starebbe meglio con loro? E' stato allora che ho realizzato: le serie Tv di cui sopra le hanno ideate le ciccione, ecco perché! Se le suonano e se le cantano, se le scrivono e se le producono, per il piacere di soddisfare il loro ego.
Come se non bastasse, in generale, dopo un po' le fanciulle in questione cominciano ad alludere almeno una volta ad episodio alle loro poppe extra-large. Anche se, fatta eccezione per Rachel Bloom – che oltre ad essere la meno lardosa è anche quella più autoironica e autenticamente formosa –, dubito che le poppe de quibus continuerebbero ad essere di dimensioni ragguardevoli al cospetto di una dieta come si deve. Per giunta, e qui ce l'ho soprattutto con Mindy Kaling, ci tocca pure vederle indossare abitini succinti... 
Quindi?
Quindi niente. Capisco il disperato bisogno di rivalsa, ma non si potrebbe fare una sitcom in cui, semplicemente, l'aspetto fisico non conta e si punta più su pregi intellettuali o caratteriali, anziché sforzarsi di inculcare ai telespettatori il concetto che le grassone rozze e scurrili sono il massimo perché si scrivono le sitcom da sole?

martedì 25 aprile 2017

Un'avventura...

ATLANTE DEI LUOGHI MALEDETTI
di Olivier Le Carrer


Lo ammetto, a me 'sti atlanti dell'immaginario (e non) fanno impazzire (si vedano post 16 marzo 2017 e 6 dicembre 2016)... Mi permettono di viaggiare stando seduta sul divano, in una dimensione che non è solo fisico-geografica, ma anche storica e umana, inseguendo luoghi mitici, ma anche realistici, collegati con gli intrecci più disparati... Perché ogni posto descritto non è solo un punto su una mappa, ma soprattutto un racconto, una trama, un'avventura...
Certo, questo volume in particolare, al di là della fascinazione morbosa che inevitabilmente esercita su di me, non è tra i più allegri.
Tuttavia, per fortuna, non ha una prospettiva scandalistica, cerca solo di illustrare, narrare e testimoniare.
Dico per fortuna perchè qui non tutto è collegato alla fantasia, non tutto è remoto e perduto nel tempo, e talvolta il mistero ha lasciato dietro di sé ferite ancora sanguinanti.
Come ci viene spiegato nell'introduzione, infatti, ci sono tre famiglie di luoghi maledetti: la prima, quella che prediligo, legata a “ingiunzioni di ordine mistico” (si veda, ad esempio, Amytiville), è la più stimolante dal punto di vista immaginativo e suscettibile delle ipotesi più varie e suggestive; la seconda, la più spaventosa, dovuta a  ragioni naturali (vulcani, uragani, etc), l'ultima, ahimè, senza dubbio la più triste,  è divenuta tale a causa degli uomini, ad esempio per via dell'inquinamento, o per il tasso di criminalità.    
Il libro è suddiviso per aree geografiche, molto curato a livello grafico, e presenta testi esaustivi di lunghezza variabile, piacevoli da leggere e costellati di riflessioni e riferimenti, che favoriscono l'immersività.
Le mappe, come sempre in relazione ai volumi di questa collana, sono bellissime e a colori, dettagliate, e precise, l'edizione preziosa e sofisticata.
In quanto alle singole voci, invece, ce ne sono quaranta e, sono sincera, se alcune sono note a chiunque (Triangolo delle Bermuda, Aokigahara, Scilla e Cariddi) tante non le conoscevo (Jharia, Oumaradi, Zapadnaya Litsa)...
Prossima tappa: Atlante delle Isole Remote! 

lunedì 24 aprile 2017

Trooooppi fronzoli

POSSESSIONE
di A. S. Byatt


Sottotitolo: una storia romantica. E forse il problema sta lì. Raddoppiato, in quanto, se vogliamo, le storie romantiche nella fattispecie sono due, speculari e in parallelo, quella dei due poeti ottocenteschi, lui sposato, lei gay, e quella dei due ricercatori che  ne seguono le tracce, Roland e Maud. Storie romantiche mosce, per giunta. E io alle storie romantiche mosce sono abbastanza allergica. Come pure a quelle non mosce.
Per capire: ho impiegato due anni e cinque mesi per finire sto romanzo. Che, okay, non è brevissimo, ma nemmeno troppo lungo. Siamo sulle 500 pagine circa. Di solito, se il libro mi piace, foss'anche di mille, mi è sufficiente un weekend.
Tuttavia non posso dire sia brutto. Non lo è. E' palloso, con poco mordente, troppe digressioni, descrizioni asfittiche e ridondanti, ma brutto no.
In effetti è scritto piuttosto bene, digressioni incluse, che, anzi, spesso sono la parte che ho più apprezzato e che mi hanno permesso di arrivare in fondo, nonostante tutto. Riferimenti colti, alla poesia, ai miti, alle fiabe (Melusina in particolare), un intreccio composito e mutevole, ondivago, un frasario eccellente, con bei tocchi naturistici, e una costruzione nel complesso interessante.
Però...
Però, niente, le storie d'amore, sia pure condite con alta letteratura, proprio non mi garbano. Mea Culpa. I personaggi, inoltre, mi sono parsi freddi e di maniera, non mi hanno suscitato empatia.
Le parti – numerose – con la corrispondenza – tra l'altro scritta a caratteri microscopici, che quasi mi serviva la lente per decifrarli – tra i poeti Ash e Christabel Lamotte sono atroci: non nego che ci siano pure passaggi felici, ma, a volte mi bastavano due paragrafi per scoraggiarmi. La prolissità è la regola. Trooooppi fronzoli. Che certo, sono necessari, considerati i tempi di attribuzione, ma... almeno raccontassero qualcosa di più dei sospiri... Mmm... Ad essere onesta talvolta lo fanno, ma non abbastanza spesso. Sovente, anzi, l'opera pare più un trattato documentaristico che non ha un tema preciso.
Tornando alla trama: i colpi di scena ci sono, ma ovvi e telefonati.
Tuttavia, lo confermo, non è un brutto libro. No. E ha tanti pregi, tanti ingredienti stimolanti, soprattutto a livello intellettuale. E' evocativo, erudito e ben congegnato. Le parti in poesia mi piacciono e così il tema dell'attrazione cerebrale.
Ma non mi sento di consigliarlo a nessuno, salvo, forse, ad attempate signorine beneducate con tanto tempo da impiegare, un animo quieto e la voglia di lasciarsi trasportare dai sentimenti...

venerdì 21 aprile 2017

I buoni trionfano

LA MASCHERA DI ZORRO
di Martin Campbell
(1998)


Non un film perfetto: troppo lungo, eccessivamente diluito in alcune parti, con tante scene di repertorio e sviluppi prevedibili… Ciò nonostante: accipigna quanto lo adoro!
E sì che non ho mai avuto una gran stima per Antonio Banderas, nemmeno prima che si associasse alle galline…
Tuttavia la pellicola è appassionante, caliente al punto giusto, avventurosa, di quel tipo di avventura fatta di combattimenti acrobatici (alcuni strabilianti) e battute ironiche che mi esaltano al massimo…
Il cast, poi, è eccezionalmente indovinato: dal nobile Anthony Hopkins – sia nelle vesti di insegnante inflessibile che di padre amorevole che si muove nell’ombra – alla strepitosa Catherine Zeta-Jones, dallo sguardo di fuoco (qui alla sua prima apparizione), passando per lui, Banderas, davvero formidabile nel ruolo di Zorro.
Il ruolo del cattivo sdoppiato, come quello dell’eroe; il capitano Harrison Love (Matt Letscher), viscido e fascinoso (con magnifici picchi di crudeltà); la trama trascinante e sensuale, drammatica e spiritosa, con tendenze all’epicità come all’autoironia; la storia d’amore divertente, irta di momenti topici (dal tango allo scontro con il fioretto)… e poi ci sono la fame di giustizia, la vendetta, le belle maniere di Don Diego de la Vega, il senso di perdita, il bisogno di uno scopo, gustose citazioni, i legami familiari... E il significato del simbolo, della maschera, con relativo passaggio di testimone.
Insomma, un bel film per tutti, in cui alla fine, tra mille peripezie e molti rospi ingoiati, ogni cosa va come deve, i buoni trionfano, i torti sono vendicati e gli spettatori sono appagati e più felici, traboccanti di sensazioni positive.
In quanto ai lamentati difetti: ammettiamolo, ho iniziato a notarli solo dopo la settima o l’ottava volta in cui rivedevo il film… 
Il seguito, invece, The Legend of Zorro, del 2005, non è malvagio, ma non è riuscito ad entusiasmarmi.

giovedì 20 aprile 2017

Un bianco e nero incisivo

LO SCONOSCIUTO
di Magnus


Ci sono opere che vanno lette perché sono belle, altre che vanno conosciute a prescindere in quanto hanno segnato un’epoca e dopo le cose non sono più state le stesse.
“Lo Sconosciuto” rientra nella seconda categoria (anche se, per quel che ne so, la maggior parte dei frequentatori di fumetterie sarebbe lieta di annoverarla anche nella prima) e dunque è irrinunciabile.
Lo dice una a cui Magnus non piace.
Perché? 
Non lo so.
Disegna in modo magistrale: un bianco e nero incisivo, pulito, senza sbavature, con personaggi dai lineamenti marcati e corpi plastici, e un miliardo di accuratissimi dettagli in primo piano come sullo sfondo.
Certo, a me danno un po’ fastidio ste pupille dall’espressione porcina, quasi fissa, ma è una questione di gusto personale.
Lo Sconosciuto è la sua opera più nota. Sostanzialmente una corposa raccolta di  racconti con lo stesso protagonista, l’ex mercenario Unknow (senza “n” finale), versatile trasformista dai molti talenti, e variano dal thriller all’avventura, passando per spionaggio, horror e – talvolta – ricostruzione storica… Colpiscono perché – e siamo nel 1975 – i personaggi sono cattivi, Unknow incluso. Non hanno problemi ad ammazzare, rubare, tradire o far di peggio, né sono vittime del pudore (au contraire, le scene sono esplicite e disinibite). Insomma sono tipi moderni, concreti e realistici, comprese le donne, maliarde prive di scrupoli. Le trame sono articolate, stuzzicanti, imprevedibili. Non seguono un canovaccio inflazionato e percorrono strade nuove.
Inoltre, nonostante sia più vecchio di me, il fumetto pare scritto oggi e non appare invecchiato di una virgola… 
Dunque? Perché non mi piace?
L’ho detto, non lo so.
Non mi sono affezionata al protagonista, però lo trovo simpatico e dotato di spessore.
Le storie non mi avvincono, ma sono piacevoli, con spunti interessanti e tematiche degne di attenzione (salvo l’ultima: troppo verbosa).
E allora?
Boh… 
Ma non mi sono piaciuti nemmeno “Vendetta Macumba”, “La compagnia della forca” e “Milady nel 3000”.
Eppure se uno vuole considerarsi un cultore di fumetti deve leggerlo. E farsi un’opinione propria.
A questo proposito, lussuosa, lussuriosa e lussureggiante, conviene non farsi scappare l’edizione integrale di Rizzoli Lizard, dallo spettacolare formato A4…

mercoledì 19 aprile 2017

Una narrazione corale

LA SAGA DEI CAZALET – CONFUSIONE
di Elizabeth Jane Howard


Terzo dei sei volumi che costituiscono la saga più elegante e raffinata di sempre (per ambientazione, ma anche per lo stile dell'autrice), in cui le fanciulle crescono, i sogni si infrangono e la Seconda Guerra Mondiale completa la sua drammatica iperbole...
Si inizia nel marzo del 1943 e si procede forse a passo più misurato, ma le cose accadono, e sono parecchie: nuovi amori, nuovi rimpianti, il divenire e l'evoluzione di una famiglia, e poi l'incedere della Storia che ci concede l'atteso colpo di scena, quello che, trepidanti, già agognavamo, speranzosi, da “Il tempo dell'attesa”. Solo che arriva in un momento in cui quasi non osavamo più desiderarlo, né noi, né i personaggi, quando gli equilibri sono cambiati e quindi, già lo presagiamo, comporterà non poche lacrime e complicazioni.
In linea di massima, il livello si mantiene alto, all'altezza dei precedenti tomi, avvolgendoci nelle spire della trama e nei turbamenti dei suoi protagonisti... Ci focalizziamo soprattutto sui destini di Polly, Louise e Clary e, anche se la prima è quella che prediligo per carattere, mentre preferisco l'ultima per aspirazioni, è Louise  che trovo più interessante. Perchè, più delle cugine, rappresenta lo specchio dei tempi, perché ha deluso le mie e le sue aspettative, affossandosi in una grigia ordinarietà – proprio lei, così determinata e piena di ambizioni – e ciò, paradossalmente, mi affascina in quanto imprevedibile, eppure logico, considerata l'epoca, e infine perché auspico si approfondisca il confronto con la sua terribile suocera (già, chi l'avrebbe detto che si sarebbe dimostrata così? Eppure gli indizi c'erano...).
Lo so, non ho recensito subito il libro, l'ho finito da tanto: avevo bisogno che prima i tasselli di questo affresco si stabilizzassero in un'immagine ferma. Che smettessero di muoversi. Di sovrapporsi.
Perché è forse proprio questo il maggior pregio dell'opera: la sua capacità di tenere in bilico una narrazione corale, multiforme, cangiante, che si ridefinisce di continuo, nel cuore come nella mente dei lettori. Come la vita, che si affronta nel presente e si riassapora nel ricordo, già qualche minuto dopo, acquistando nuove sfumature. Che non sono sempre le stesse, ma mutano in sintonia con il nostro stato d'animo.   
Domani in uscita il quarto volume: Allontanarsi!!!

martedì 18 aprile 2017

Una perenne inquietudine

IL GIGANTE SEPOLTO
di Kazuo Ishiguro


Fantasy sui generis per un autore che di norma si cimenta con altro, e che tuttavia anche in questo caso dà una complessiva discreta prova di sé – per quanto io abbia di gran lunga preferito “Quel che resta del giorno” e “Non lasciarmi”.
Il problema de “Il Gigante Sepolto” è la lentezza, a tratti soporifera, a tratti dissipata da bei colpi di scena, unita alla circostanza che i personaggi, i vecchi e teneri coniugi Axl e Beatrice, come Ser Galvano, Winstan ed Ewin, pur interessanti, non suscitano autentico affetto, sebbene non possa nemmeno affermare che lascino proprio indifferenti. Diciamo che nel complesso risultano freddi, con sentimenti descritti ma non mostrati, quasi di repertorio, che impediscono immedesimazione ed empatia. 
Per contro l'opera cela una morale profonda, presentata in modo evocativo e affascinante, senza retorica, inoltre è percorsa da una perenne inquietudine che va al di là degli eventi rappresentati e spesso riesce a paventare pericoli che non ci sono, non questa volta.
Stupenda, dunque, l'atmosfera, atipica la trama, splendidamente dicotomica, così come fuori dagli schemi del genere è l'impostazione di base (soltanto alla fine si capirà a che cosa allude il titolo), che mescola storicità (siamo ai tempi di sassoni e britanni), leggenda arturiana e immaginazione, però abilmente rivisitate e reinterpretate (notevole la questione della nebbia, dei suoi effetti, e soprattutto, della sua origine).   
L'elemento di maggior pregio, però, è la prosa: una scrittura impegnativa e autorale, molto ricercata, dotta, insolita per il fantasy, che del resto viene trasceso grazie a riflessioni e intuizioni elevate.

lunedì 17 aprile 2017

Sonno, sonno, sonno

NULLEGGIO SELVAGGIO


Programma di oggi pomeriggio: scrivere i post della settimana secondo la calendarizzazione concordata; correggere i “Raccontini in Via di Guarigione” in vista del Bloomday – tradizionale giorno della mia pubblicazioncina annuale –; leggere un po', se me ne resta il tempo...
Cose che ho fatto: accendere il pc; guardarlo; ronficchiare; giocare a Candy Crush sul cellulare per acquisire forza di volontà; arrendermi perché non riesco a superare lo  stupido livello; guardare il pc; andare alla toilette; chiudere gli occhi e immaginare di tornare a sabato e avere così l'intero weekend di nuovo a disposizione per scrivere i post, avendo già assolto i relativi impegni mondani; rimandare la redazione dei post a lunedì, che tanto è Pasquetta; rendermi conto che è già il lunedì di Pasquetta...  
Sob.
Non ho voglia di far niente.
Niente.
Ho un sonno astronomico e vorrei solo dormire... Anche ora – 16.45 del pomeriggio – benché abbia già pisolato in pausa pranzo.
Uffa...
E sì che una parte di me è ispirata. 
Ma l'altra, quella malvagia e indolente...
L'altra complotta un colpo di Stato.
Dice: che diamine, goditi il letto! Riposa! Vorrà dire che sta settimana scriverai un post al giorno svegliandoti un'ora prima al mattino, giacché il mattino ha l'oro in bocca...   
Decido di ascoltare la parte indolente. Sono saggia, io. Mi accoccolo su cuscino.
E auspico che la parte indolente non abbia da dire la sua anche domani alle 6.00, convincendomi a porre in essere altre condotte svergognate...
Ho sonno, sonno, sonno.

P.S.
E' che mi si è rotto il ritmo...
Di norma mi dedico al blog la domenica pomeriggio. Ma ieri era Pasqua...

venerdì 14 aprile 2017

La storia dolorosa di una famiglia

FATHERLAND – EDUCAZIONE DI UN TERRORISTA
di Nina Bunjevac


Romanzo grafico di rara intensità, per i disegni – un chiaroscuro particolareggiato e potente, a tratti ferocemente realistico, quasi il calco di una fotografia, a tratti reinterpretato in modo personale, marcato, cupo, oppressivo, ma egualmente intriso di profondità – e per i testi: coraggiosi e autobiografici, dalle svariate sfumature, capaci, attraverso un montaggio composito e lineare ad un tempo, di narrare quanto di mostrare.
Già l'argomento avvince e fa presagire il dualismo etico e affettivo dell'opera: da un lato l'autrice racconta se stessa, suo padre e la storia familiare. Dall'altro affronta il problema alla radice della sua infanzia e del suo rapporto con i genitori e delle perdite che la sua famiglia ha dovuto affrontare, legate alla circostanza che il padre, Peter, era un terrorista.
E quindi una persona cattiva per definizione.
E che pure non la è.
E invece sì, anche nel privato, e non solo in virtù delle convinzioni politiche.
E si cerca di individuarne il percorso e le ragioni, attraverso la testimonianza – filtrata mediante il ricordo – di più personaggi (la madre, la zia, il fratellino rimasto indietro...), contraddittori e sfaccettati. Si cerca di comprendere e di spiegare. Di giustificare, persino, finché si può. Il padre, ma anche la madre, che alla fine ha scelto di fuggire, pur rinunciando al figlio maschio, ancora bambino. Ma non per codardia. Per autoconservazione. Propria e delle figlie. Per determinazione e ardimento.
E si alternano presente e passato e passato remoto, ingarbugliati e connessi, tutti ancora in itinere, prima e dopo Peter, e proiettati sul domani.
La storia dolorosa della ex-Jugoslavia.
La storia dolorosa di una famiglia.
I riflessi e le cause.
I contrasti.
E si narra della paura... La paura perenne e implacabile, che costringeva la mamma, prima di andare a dormire, a spostare il mobilio contro le finestre, per evitare che fossero eventualmente rotte, sorprendendo la famiglia nel sonno, per dar fuoco alla casa...
Ma lo si fa in modo oggettivo, distaccato. Come se non ci si potesse abbandonare davvero ai sentimenti per tema di esserne sopraffatti. 
Ma se ne è sopraffatti lo stesso. Oggettivamente. In quanto umani. In quanto sopravvissuti. In quanto serbi e in quanto familiari di Peter.
Superbo.

giovedì 13 aprile 2017

Non ci facciamo mancare nulla

IL MIGLIO VERDE
di Stephen King


A King piace sperimentare, in molti sensi, ma io a volte certe prove (che mi sanno, attenendomi alla più generosa delle definizioni, di squallide operazioni commerciali) le patisco... Nella fattispecie, nel 1996, l'opera, adesso – grazie a Dio – disponibile in un unico volume, era stata pubblicata in sei parti, con la formula del romanzo a puntate alla Dickens, che, ahimè, tra riassunti e intervalli, mi aveva precluso l'immedesimazione e frenato il godimento.
Peccato, perché ritengo che la trama, di ambiente carcerario, ma frammista a suggestioni soprannaturali, fosse valida e ben approfondita, non solo ben scritta e ben raccontata (a distanza di oltre cinquant'anni, dal capo delle guardie penitenziarie, Paul Edgecombe – la storia è ambientata nel 1932). Tipica del Maestro, sotto molti profili, ma anche più incisiva del solito sotto altri.
Il miglio verde del titolo, infatti, allude all'ultimo tratto di corridoio che conduce alla sedia elettrica... Non di semplici detenuti, si parla, quindi, ma di condannati a morte. Almeno uno dei quali, com'è ovvio fin dall'inizio, grazie alla precisa caratterizzazione del personaggio, innocente, a dispetto dell'odiosa imputazione (lo strupro e l'uccisione di due bambine) e del suo imponente aspetto fisico.
Per il resto non ci facciamo mancare nulla: dalla cattiveria gratuita di un secondino verso i ristretti – il vero cattivo – a diverse tematiche sociali, più o meno accennate, a questioni di imperativo categorico e di ineluttabilità del sistema. In più, il romanzo è percorso da una commovente umanità, esasperata ad hoc dal contesto, ricco di momenti salienti e di lirismo, dotato di armonia e costellato di afflati intensi.
Eppure, se ci ripenso, a me sovviene soprattutto l'irritazione per queste attese coattive e sleali, che più volte mi avevano fatto perdere il ritmo e il piacere della lettura, impedendomi un vero coinvolgimento.
Rileggerlo oggi, a distanza di oltre 20 anni, e rimediare?
Potrei.
Ma non lo farò.
Non adesso.
Non sono ancora pronta.

Ma invidio le menti “vergini”, che possono accostarvisi ora, per la prima volta, senza sottostare a inutili spezzettamenti.

mercoledì 12 aprile 2017

Magnificamente dicotomico

CHESIL BEACH
di Ian McEwan


Florence ed Edward, nel corso della loro prima notte di nozze, a Chesil Beach, appunto.
In apparenza un'opera statica e introspettiva, in realtà un tumulto di sentimenti e sensazioni, un'analisi minuziosa, complessa, drammatica, sulle dinamiche sessuali e sentimentali di una compassata coppia di neosposini inglesi dei primi anni sessanta, figlia del suo tempo e ugualmente al di fuori di essa.
Perchè anche se le premesse cambiano, alcuni temi hanno il sapore dell'universalità.
Di estrazione sociale diversa, innamorati, inesperti, timidi, Florence ed Edward sono soprattutto incapaci, sia pure in modo differente, di far fronte alla reciproca goffaggine, che darà luogo a una serie di incomprensioni sovrapposte, esaminate attraverso il presente e il passato, e poi in retrospettiva.
Romanzo brevissimo, ma puntiglioso e acuto, dal ritmo cadenzato, ma inesorabile dei sentimenti, coinvolgente e triste. Senza soluzione, almeno per i parametri dell'epoca, eppure oggi quasi semplice da risolvere, almeno se visto sotto il punto di vista attuale, libero dalle pastoie delle convenzioni sociali del secolo scorso e del vuoto perbenismo. 
Colpisce in primis per la finezza dello stile, semplice, scorrevole, ma dettagliato e sofisticato. Poi per l'argomento, trattato punto per punto, senza sconti, ma senza brutalità. Al contrario, percorso da una dolorosa consapevolezza, che permea l'atmosfera e la rende uggiosa, mesta. 
Magnificamente dicotomico, specie nel suo epilogo, che, come dicevamo a scuola, ci fa sentire più che mai effimeri predicati dell'essere.

martedì 11 aprile 2017

Frizzante e spassoso

RAPUNZEL – L'INTRECCIO DELLA TORRE
di Nathan Greno e Byron Howard
(2010)


50mo classico Disney, uno dei più allegri e divertenti di sempre, fin dai disegni, che anziché privilegiare la bellezza della Principessa di turno ne esaltano simpatia e freschezza.
Rapunzel, infatti, benché prigioniera in una torre da tutta la vita e mentalmente plagiata dalla perfida rapitrice, Madre Gothel (curiosamente il personaggio preferito dalla mia nipotina di cinque anni), vanta un carattere solare e stravagante, dolce, esuberante e femminile, sempre incline al sorriso e all'empatia. 
Decisamente, come consuetudine consolidata della Disney, i toni rispetto alla fiaba dei fratelli Grimm sono smorzati e virano sulla commedia musicale (con canzoni carine, ma non trascendentali), assumendo altresì una veste più popolare, sostituendo il bel principe ad un furfante di buon cuore (anche se... viene parallelamente meno l'aspetto dell'arrampicata sociale, nel senso che, viceversa, qui è la protagonista ad essere di nobili natali).
Sia come sia, le emozioni sono assicurate, condite con gag e comprimari adorabili (bestiole incluse), tanta azione (più del solito) tra inseguimenti e combattimenti, e una cattiva che ispira pure un po' di compassione... Naturalmente, a completare la trama, non può mancare l'amore, qui graziosamente frammisto a opportunismo e gustose schermaglie, dai connotati straordinariamente moderni e ad un tempo, per quanto  aggiornati e ribaltati, in linea con i canoni disneyani e favolistici.    
Invero, interessante dal punto di vista psicologico, oltreché molto complesso, è altresì il rapporto figliastra-matrigna – vera novità della pellicola – che per una volta non è scevro di pseudo-affetto, e in cui il male è insito, ma in modo subdolo e occulto, malato e insinuante, non clamoroso come vuole la tradizione.
Doppio piano di lettura, dunque, per un film che, comunque, è e resta frizzante e spassoso, con momenti drammatici e sentimentali alleggeriti dai tanti siparietti e dagli imperativi morali che vi sono sottesi.

lunedì 10 aprile 2017

Un tripudio di immagini

THE DEVIL – ATLANTE ILLLUSTRATO DEL LATO OSCURO
di Demetrio Paparoni


A tutti gli effetti un volume di arte. Sontuoso, seducente, forte di un tripudio di immagini e ottime riproduzioni che, come recita la copertina, viaggiano “da Giotto a Picasso, da Pollock a Serrano, dai Tarocchi ai Videogiochi” (certo, volendo fare i noiosi, sarebbe stata gradita una maggiore attenzione alla cultura Pop, e ai fumetti in particolare, ma, nel caso, le quasi quattrocento pagine del tomo non sarebbero bastate, richiedendone quasi il doppio, e comunque non si può negare che il volume sia attento altresì a suggestioni musicali o cinematografiche, oltre a quelle del mondo videoludico). 
Un libro, peraltro, assai suggestivo, che traccia, aiutato dalle fonti raffigurative più disparate (e talvolta inconsuete), un percorso stimolante, anche dal punto di vista storico-culturale.
L’argomento è appunto il Diavolo, ma visto nelle sue mille sfaccettature: come incubo o come tentatore, nell’ambito cristiano come in quello buddista, con rispetto o con dileggio, o addirittura in modo umoristico, illustrandone, al contempo, la poetica, multiforme e variegata, che spesso non è che un riflesso di noi, dell’Uomo e del suo sentire… 
Vengono dunque esaminate le continue metamorfosi che il Signore del Male subisce nell’immaginario collettivo, mettendone in luce ragioni e implicazioni, esaminandone le origini, le interpretazioni e i cambiamenti dettati tanto dalla sensibilità dei singoli artisti (Dante, Milton, Ernst, Dalì…) quanto da veri e propri mutamenti sociali ed epocali, come quelli provocati dal luteranesimo, dall’avvento del nazismo o dall’AIDS.
Il volume è perfetto dal punto di vista grafico (non solo in relazione alle immagini, ma pure a font e impaginazione, risultando chiaro e accattivante), interessante sotto il profilo contenutistico. A tratti ripercorre sentieri già battuti con linguaggio fluido e colloquiale, altre mette in luce aspetti inconsueti, inducendo a riflessioni di matrice antropologica o psicologica significative.
Un’opera di cui mi sono innamorata a prima vista e che, per quanto mi riguarda, ha colmato un enorme vuoto editoriale.
Difficile, infatti, reperire un testo equivalente, tanto più che non si limita a scandire delle tappe, ma fornisce vere e proprie elaborazioni, spiegando cause, concause e sotto testo di ogni passaggio.   
Ci voleva! 

venerdì 7 aprile 2017

L'ordinaria asperità del quotidiano

BIG LITTLE LIES – PICCOLE GRANDI BUGIE


Solo sette episodi, un cast stellare, una regia impeccabile... E mi piace pure la sigla, benché non abbia una di quelle musiche che spaccano. 
Il tema è quello dell'omicidio, ma non sappiamo perchè, seppur ci facciamo subito l'idea che si tratti di una di quelle storie di ordinaria follia in cui ad un certo punto la brocca trabocca per una sciocchezza. Ad ogni modo, cerchiamo di scoprirlo andando a ritroso, intervallando gli interrogatori della polizia a quel che è successo tempo addietro, un po' come in “The Affair”. Con la differenza che qui non ci sono tempi morti e che l'impianto è costruito assai meglio. E soprattutto con più personaggi e più sfaccettati: supermamme e superpapà, che già solo per questo sanno di ossessionati psicopatici con la mania del controllo e della competizione, visti dai più come sinonimo di vita perfetta e invidiabile, qui portata all'esasperazione (sono anche super-ricchi e super-belli e super-eleganti). E, naturalmente, edificata sulla menzogna. O meglio, su una coltre variegata di bugie e invidie.
Conosciamo quindi Madeleine, prepotente e litigiosa, che, a dispetto di tutto (incluso il fatto che sia interpretata da quella sgorbia mascelluta e antipatica di Reese Witherspoon) mi piace un mondo; la dolce e fragile Jane (la Shailene Woodley di Divergent), giovanissima e fuori luogo; la meravigliosa Celeste (Nicole Kidman), sposata con Perry (Alexander Skarsgard) e l'ambiziosa Renata (Laura Dern), insopportabile. Tutte madri di bambini in procinto di frequentare la pre-scuola... Ed è qui che capita qualcosa che condurrà all'omicidio, e che comincia con la piccola Amabella, figlia di Renata, che accusa Ziggy, figlio di Jane, di aver tentato di strangolarla...
Una Serie Tv incalzante, di qualità, intimistica e affascinante, che tiene viva l'attenzione con la trama thriller, ma che è godibile soprattutto per il modo in cui intesse l'ordinaria asperità del quotidiano, descrivendo, in particolare, il punto di vista delle protagoniste, molto diverse fra loro, estremamente femminili, e il modo in cui lottano per affermare se stesse in quanto madri e in quanto donne che solo madri non sono.
Ho promesso al MPM di non leggere il romanzo da cui questa Mini è tratta finché non avremo visto l'ultimo episodio, ma il libro di Liane Moriarty mi scruta dal comodino e non so per quanto ancora potrò resistere....

giovedì 6 aprile 2017

Perdutamente nerd

DIMENTICA IL MIO NOME
di Zerocalcare


L'ho sempre evitato, Zerocalcare. Un po' per i disegni, troppo affollati e stilizzati, un po' per pregiudizio: mi sembrava troppo a sinistra. Di quella sinistra dogmatica, ipocrita e irritante della scuola “quel che è tuo è mio, quel che è mio è mio”, tipico della becera plebe pseudobuonista che disprezza i ricchi perché vorrebbe essere al loro posto, per comportarsi esattamente allo stesso modo, salvo far finta di no, e allora si affilia al comunismo. Bleah.
Ma...
Come si fa a criticare un volume che non si è letto? Un autore che si conosce solo per sentito dire? Anche questo è male. Malissimo. E così ho dovuto provare.
E ora mi tocca ravvedermi e recuperare tutta la bibliografia di sto Zerocalcare perchè, dannazione, il ragazzo mi piace. Mi piace un casino.
Intanto perché è nerd, perdutamente. Di più: riesce al filtrare qualunque cosa attraverso la nerditudine e la percezione infantile, a partire dalla sua esperienza di vita (la mamma diventa Lady Cocca di Robin Hood, il padre pare quello di Kung Fu Panda...), comunicando messaggi profondi, ma in modo divertente, arguto, che a tratti emoziona, a tratti fa sbellicare.
Sì, patisco il romanaccio. Lo associo alla volgarità e ai film dei Vanzina. Ma qui fa in fretta ad ammantarsi di spessore e di tenerezza e, misericordia, alla fine mi è venuta una voglia matta di andare ad esplorare il quartiere di Rebibbia.
L'opera, poi, un po' romanzo di formazione, un po' paura e delirio a Roma, è lirica, spontanea e incisiva: ha il gusto della crescita e della scoperta, ma sa cogliere ancora la logica inappuntabile dei bambini, con i suoi traumi e regole sociali peculiari. Le stesse che da piccolo hanno imposto a Calcare di mentire circa il nome della nonna – Huguette, Ughetta – sicura garanzia di presa in giro (ma non è il suo, il nome da dimenticare: la vicenda è assai più intricata e condita con elementi avventurosi, rocamboleschi e originali).
E c'è questa vena dissacrante (la nonna è morta, Calcare, nipote afflitto, deve trovare il suo anello. E' un momento triste, eppure i riferimenti a Gollum si sprecano...) ma ben ponderata, nel senso che evita di cadere nel grottesco, cosa che, dato il contesto, non sarebbe stata apprezzabile. Piuttosto la vena dissacrante sembra la conseguenza naturale di aver scelto questo tipo di linguaggio narrativo, che, nonostante la trama sia di per sé notevole, costituisce la vera forza dell'opera.
Quindi, in totale, chissenecale delle contaminazioni eccessivamente sinistrorse... Si possono ignorare. Escludere. E vale la pena farlo. In quanto ai disegni, invece, ho finito per amare anche quelli: stilizzati, ma vivaci, simpatici e comunicativi. E perfettamente intonati al racconto.
Love, love, love.

mercoledì 5 aprile 2017

L'amore bellissimo

STORIA DI CHI FUGGE E DI CHI RESTA
di Elena Ferrante


Terzo capitolo della quadrilogia de “L'Amica Geniale”, che ormai mi ha colpita e affondata, nel senso che sono così affezionata ai personaggi – non solo alle protagoniste – che li seguirei tutti fino alla fine del mondo, anche se fossero noiosi e non capitasse loro nulla... Solo che non sono affatto noiosi e succede di tutto, continuamente!
Amore e morte, in quantità, tanto per cominciare... L'amore, bellissimo, descritto da Michele in uno dei più splendidi passi sull'argomento che abbia mai letto – una manciata di righe fulminanti, così vibranti da far male e rimanere per sempre, come una cicatrice – e poi molti modi di amare, dalle evoluzioni multiformi e dolorose, talvolta contraddittorie, sempre intensissime, anche quando non lo sono e sprofondano nella routine... E poi la morte, già, ma non quella serena che permea il quotidiano: nel corso di un solo volume incappiamo in ben quatto omicidi, inaspettati e brutali. E non di comparse di passaggio... Morti che ci segnano, dunque, che ci sconvolgono, e su cui luce non è fatta del tutto.
I personaggi continuano a sorprenderci, a mutare... Pietro, Pasquale e Nadia, Elisa... E torna Nino, più... Nino che mai.
Anche la contrapposizione/specularità tra Lila e Lenù si accentua: tra chi è rimasta nel Rione e chi ne è fuggita... Eppure le cose non sono mai bianche o nere, e sempre tutto resta aggrovigliato, affermandosi e negandosi ad un tempo. Affrontiamo l'età adulta delle nostre protagoniste, dunque. Illusioni e disillusioni, crescita e affermazione, scoperta di sé. Frammista però a eventi politici e sociali, a riflessioni stimolanti, fatte di confronti e verità che ustionano.
Posso dire che il terzo volume sia più bello dei precedenti? Non lo so. Non lo so più. Sono troppo addentro alla trama, ormai, per distinguere i singoli tomi. Quel che è certo è che sono ansiosa di divorare il prossimo.

martedì 4 aprile 2017

Un mondo vastissimo e fantasioso

GUERRE STELLARI - PLAY
La collezione di Fabrizio Modina

E' la mostra che c'è adesso a Genova, fino a metà luglio, ai Magazzini del Cotone.
Modellini, action figure e locandine della Saga, ma più che altro giocattoli: riproduzioni di astronavi e personaggi, piccoli mondi perfetti, quasi diorami, ricchi di dettagli, per ripercorrere un mondo vastissimo e fantasioso, ricco di creature bizzarre dalle molteplici dimensioni, non necessariamente piccole.
In realtà, dopo gli orrori dell'episodio VII, non avevo nessuna voglia di visitarla. Ho fatto lo sforzo solo per MPM e per il piacere della compagnia (siamo andati con amici e, con l'occasione, con altri ci siamo incontrati fuori). Ad ogni modo, ammetto, l'allestimento è molto carino. Non enorme, ma ben strutturato, denso di meraviglie e qualche sorpresa.
In realtà io non sono un tipo da mostre, nemmeno quando mi fanno gola (ecco perché di Modigliani, nonostante sia sempre a Genova, non se ne parla)... In generale mi sento soffocare quando sono in mezzo a troppa umanità, e mi dà fastidio essere esposta ai commenti idioti degli ignoranti venuti non si sa perché. Ma qui, tutto sommato, le cose sono andate abbastanza bene.
Intanto perché, nonostante non ci fosse scarsa affluenza, la disposizione ariosa delle teche consentiva sufficiente spazio vitale per tutti, e poi perché, a quanto pare, i fan della saga sono educati. Anche i bambini. Se devi fare una foto ti sorridono e si spostano. Se devono farla loro aspettano che tu abbia finito. Wow! Mica capita sempre!
Comunque, veniamo al sodo...
In biglietteria vieni dotato di audioguida, una ciascuno, facile da usare e piuttosto intuitiva. Non sei obbligato a servirtene: dà informazioni interessanti, ma niente che un vero nerd già non conosca. Però puoi gestirla come vuoi e dà organicità alla mostra.
Il tempo di percorrenza previsto è di circa quaranta minuti. Noi ne abbiamo impiegati oltre il doppio. 
Intanto perché si può fotografare tutto (ho chiesto all'ingresso) - MPM si è scatenato - e poi perchè le teche sono davvero un tripudio di scene e particolari, per cui, per assimilarle, bisogna soffermarcisi un attimo.
Le sale, comunque, sono organizzate bene: giocattoli piccoli alternati a riproduzioni grosse, dalle dimensioni realistiche, con cui ci si può far immortalare (Yoda, gli Assaltatori, Darth Vader, Han nella carbonite, il casco di Boba Fett...). 
All'inizio ci accoglie una carrellata di personaggi (diversi esempi di Imperatore, di Principessa Leila, di Stormtrooper e via dicendo, di cui a volte è possibile osservare l'evoluzione negli anni, che, a seconda, può privilegiare l'aspetto guerriero o quello scherzoso), quindi su mezzi e astronavi, anche se non mancano le spade laser, indi le locandine dei vari film...
Ad un certo punto sorge una sorta di “area bambini”, in cui i piccoli padawan possono darsi al disegno, o ci si può divertire a digitare il proprio nome in un computer che ti rivela chi saresti nell'universo di Star Wars, con quale mansione, originario di quale pianeta...   
Ovviamente io ho fatto più tentativi e sono risultata: barista, ingegnere aerospaziale, Boss del crimine, Stormtrooper, Guardia del Corpo e Cacciatore di taglie... 
Si procede con i costumi della Regina Amidala e una caterva di altri giocattoli e giocattolini, messi in posa, come a ricostruire le scene dei vari film. Personalmente, mi sono innamorata del tavolo da Sabbacc, con tanto di mostricini sopra, del Rancor e del Sarlacc. Non ci sono, infatti, solo i personaggi principali, ma la rappresentazione  di ogni virgola! Compreso qualche ninnolo che avevo acquistato anche io quando sono usciti gli episodi I-III, come la riproduzione Micromachines della Luna Boscosa di Endor...
In ultimo, si dà spazio a qualche pubblicazione cartacea e a qualche ammennicolo ameno, quale il Darth Vader natalizio.  
Nel complesso, per quanto ne siamo usciti distrutti, la mostra non è né troppo lunga nè troppo corta, sebbene comprenda migliaia di pezzi.  
Il neo maggiore, se proprio devo fare la guastafeste, è dato dal negozietto acquisti: dopo aver visto tutte queste meraviglie, davvero troppo povero!

lunedì 3 aprile 2017

Penelope rifiuta di tessere la tela

PENELOPE ALLA GUERRA
di Oriana Fallaci


E va bene, la Fallaci mi piace di più come reporter che come romanziera... E ciò sebbene quest'opera non mi sia dispiaciuta, al contrario: è viva, impetuosa e gastrica. E ciò benchè la trama, in sé stessa, non sia di quelle che fanno gridare al genio!, al genio!, se non per la forza stilistica.
Eppure anche sotto questo profilo non posso dichiarare una soddisfazione piena. Indubbiamente la Fallaci scrive bene, ci manca, però... quei suoi vezzi retorici, quelle forme un poco desuete, quelle sue frasi insistite che nei suoi pezzi da giornalista conferiscono magnetismo e carisma alla lettura qui sanno di artificio e, alla lunga, sottilmente stancano. 
Intendiamoci, non lo avrei notato in altri autori, ma le mie aspettative verso di lei ormai sono alte. Vertiginose. Pazienza. 
Il libro è comunque interessante: parla di uomini e di donne, dell'amore e dell'America. Vanta personaggi intensi – Giò, la protagonista, in particolare (ma c'è un passaggio straordinario su Martine, l'amica frivola) –, canta di sentimenti, ma è lungi dall'essere melenso (disperato, tutt'al più, cinico, a tratti, bruciante), è critico, contraddittorio e c'è molto di autobiografico. Si vede. In Giò, soprattutto. 
Non dubito che la storia sia inventata, come l'autrice ha proclamato a gran voce, ma c'è troppo di lei nei modi e nei toni come nel retaggio stesso e nel contesto del personaggio per poter prendere del tutto le distanze dalla donna. Più che un mix di fantasia, ricordo e invenzione, infatti, Giò pare un suo alter ego, seppur ben radicato in un momento preciso della sua vita e presto consegnato al passato. 
Siamo nel 1962, Giovanna va a New York per lavoro, fa la giornalista, e qui trova l'amore, o così crede. In realtà, più che altro, si ribella. Alle convenzioni, ai cliché, a sé stessa. E quindi, novella Penelope, rifiuta di tessere la tela, ma ruba il ruolo ad Ulisse... Che, questa volta, non è un eroe, ma un pavido, un pusillanime.

P.S.
Affermo di preferire la Fallaci reporter, ed è vero, per ora, ma il confronto è impari. Ho letto molto di lei come giornalista, ma questa, per me, è la sua prima opera di narrativa. Per me e anche per lei: è il suo primo romanzo. Quindi è possibile che il mio sia un giudizio affrettato. Vedremo. Ma credo che Insciallah dovrà attendermi ancora un po' e che darò la precedenza, ad esempio, alle interviste...