Umorismo
inglese ai massimi livelli: surreale, intelligente, arguto.
Utilizza
il non sense e l'ironia, il paradosso e la satira sociale, ma è
dissacrante, trasgressivo, a tratti persino un po' disgustoso (il
signor Creosote, in particolare), con qualche accento splatter.
Il
film è suddiviso in episodi e affronta le sette fasi della vita
dell'uomo, dalla nascita alla morte, cercando di carpirne il senso...
...Ma
alla fine il senso c'è davvero?
A
volte la pellicola pare suggerire di no e nel finale la soluzione
viene consegnata in busta chiusa (di cui non svelo il contenuto)...
Ma probabilmente il segreto sta nel pesce, ossia in quel siparietto
che compare “alla metà del film”: il momento più difficile da
decifrare, ma anche quello che alla fine continua a viaggiarti in
testa, insinuandoti tra i tuoi pensieri e offrendoti interpretazioni
diverse a seconda dell'angolazione da cui lo scruti... Probabilmente
perché il senso della vita sfugge, ma a volte ti sembra di
afferrarlo, e magari lo fai davvero... Quando riesci a spogliarti
delle sovrastrutture sociali e dai falsi valori imposti dall'alto:
dalla religione, dalla politica, dalla scuola... Perché non si è
nascosto, lo hai sempre avuto davanti, ma tu finora non sei mai
riuscito a vederlo...
A
supporto di questa tesi, una curiosità: il titolo provvisorio
dell'opera era proprio “Fish”, pesce.
Un
film iperbolico, cinico, che trasuda humor nero e che regala sketch
pazzeschi (il prologo con la guerra fra gli impiegati, la lezione di
educazione sessuale, i menu per la conversazione, le conseguenze del
mancato uso del preservativo...).
Metafisico,
sarcastico, godibilissimo, sottilmente colto e sofisticato.
Ma
soprattutto: divertente, spassoso, da sganasciarsi!
Ovvero
lo stagnare di sogni (di per sé banali e inflazionati) che non si
sono realizzati e non si realizzeranno, e che sono destinati a
naufragare tristemente senza neppure la consolazione di un riscatto
morale (o che, ci direbbe Michael Ende, l'autore de “la Storia
Infinita”, diventano bugie).
In
realtà non si soffre troppo per i protagonisti, uno più fastidioso,
squallido, e insignificante dell'altro, persone comuni e pieno di
odio con qualche irrisorio talento o nessuno, del tutto privi di
afflati poetici e di buon cuore, e per cui, dunque, non c'è
partecipazione emotiva né pietà nemmeno da parte dell'autore, che
si limita ad osservarli con occhio clinico registrandone i passi e i
non-progressi, le illusioni e le disillusioni.
Lo
scopo non è infatti quello di immedesimarsi in loro e simpatizzare
con i loro drammi, solitudine, incomunicabilità... ma è piuttosto
una denuncia: su come la realtà di Hollywood, fabbrica di meraviglie
e di stelle, corrompa e sia corrotta, frequentata sostanzialmente
solo da locuste affamate, avide, ingorde, che si alimentano di
ipocrisia e di menzogne.
La
storia prosegue in modo cadenzato, tra nuove conoscenze e piccole
batoste, ma poi, all'improvviso, si impenna, sfociando in una sorta
di isteria collettiva, e tutto arde e si consuma in un lampo, così
velocemente che ti sbalza su un lato, attonito, ustionato, col sedere
per terra, e ti tocca rileggere le ultime pagine per capire se quanto
è avvenuto è avvenuto davvero.
Ma
lo è.
E
ti lascia l'amaro in bocca.
Al
contempo, però, conferisce un senso profondo al testo, strappando
ogni illusione, lacerandola, e dimostrandoti empiricamente di quale
vile materiale siano fatti i sogni.
Solo
certi sogni, però, preciso io. E molto dipende dalla qualità dei
sognatori, che, in questo caso, sono mossi più dall'ambizione e dal
bisogno di rivalsa, che dal gusto per la bellezza.
Lo
stile è rapido, asciutto, con pochi orpelli. Lucido, oggettivo,
perfettamente intonato alla trama. Il romanzo è brevissimo,
negativo, e per l'epoca (scritto e ambientato negli anni trenta,
periodo d'oro del cinema hollywoodiano) assolutamente controcorrente,
tutto teso, con pochi abilissimi tratti, a scrostare la doratura
del mito cinematografico e con essa a rivelare il lato oscuro della
società e del sogno americano: sfavillante, quanto fragile e
inconsistente.
P.S.
Piccola
curiosità, uno dei personaggi si chiama Homer Simpson, e anche se
nulla ha a che spartire con il simpatico mangia-ciambelle di
Springfield, è una casualità abbastanza buffa.
Uno
dei fumetti più divertenti, anticonvenzionali, dissacranti,
irriverenti, e amabilmente blasfemi dell'universo!!!
E
anche uno dei miei preferiti, con scene umoristiche di raffinata
crudeltà, che si destreggiano tra il grottesco e il demenziale ben
calibrato, e che si rivelano ottime per stemperare la drammaticità
di altri momenti.
Ricco
di azione, di ritmo, di colpi di scena, e con personaggi strepitosi e
sfaccettati (I love Jesse Custer, il protagonista... E Cassidy, il
suo amico vampiro), azzeccatissimi, affascinanti, che seguiresti
ovunque, perfino in una blobbosa soap opera, e per cui sarebbe
necessario un Post a parte, cattivi e comprimari inclusi (alcuni sono
così gustosi che hanno meritato dei brevi spin-off).
Per
giunta si sollevano interessanti questioni religiose, se qualcuno
avesse il tempo di soffermarvisi, tra una fuga, una scazzottata e una
bella risata di pancia (abbiamo angeli, demoni, un santo, un
reverendo... ma Dio no. Dio si è nascosto chissà dove quando sono
spuntati i primi casini...).
E
c'è una storia d'amore, naturalmente, una bella intensa, non
zuccherosa, con qualche intoppo e qualche guasto... E una di
amicizia, anche, un'amicizia insolita, curiosa, con risvolti
inaspettati, un paio di pecche, e ritorni graditi... E pure una di
amore filiale... E poi sangue, violenza, e altro sangue e altra
violenza! Un'ambientazione Western con un po' di allusioni al
genere... Femminismo, satira, l'analisi di vari temi sociali
(tossicodipendenza, depressione, senzatetto...) e un po' di sano
turpiloquio, a condire il tutto e ad esasperarlo ancora un po'.
Detto
così può sembrare un assurdo mix di ingredienti presi a caso, ma
non lo è: in realtà c'è pure John Wayne, ma ogni elemento è ben
bilanciato e in sintonia con gli altri, che ne vengono così esaltati
acquistando nuovi valori, e che comunque risultano tutti coerenti e
naturali. Ad esempio, si ride molto meglio dopo un bel massacro...
Non per sadismo, ma per reazione... Dicesi bisogno di catarsi.
La
trama è ben strutturata, ed è evidente, nonostante il trionfo di
intrecci/intrighi/personaggi, che è stata pensata prima della
stesura, e perfettamente studiata e ponderata. Diversamente sarebbe
stato davvero difficile per l'autore tirare le fila e permettere alla
storia di svolgersi senza inciampare.
Persino
le copertine (Glenn Fabry) sono belle, molto dettagliate e più
seriose rispetto ai disegni essenziali di Steve Dillon, che si
dedica alle vignette, peraltro efficacissime e perfettamente intonate
al testo.
Insomma,
il capolavoro di Ennis. Pura gioia mentale!
Vale
a dire lo stupendo romanzo che mi ha indotta a leggere l'”Ulisse”
di Joyce per i continui riferimenti (non necessariamente dotti) che
fa a quest'opera e che già emergono dal nome del protagonista,
Leopold, e di suo fratello, Stephen!!!
Okay,
non è “Il principe delle maree” – che ho amato infinitamente
di più, che è più profondo, più poetico, più sofferto e
autentico, meglio strutturato, con colpi di scena più riusciti, e
con personaggi più intensi (Luke in particolare, il fratello
maggiore di Tom, nonché il vero “principe delle maree”) – ma
l'ho letto più di recente e comunque mi è piaciuto moltissimo: più
di “Beach Music” (non tanto per i pregi letterari, quanto per i
personaggi e la trama), e che contiene quasi tutti i sublimi elementi
che caratterizzano le opere di questo magnifico autore, oltre a tanti
temi a lui cari: un misterioso dramma del passato che continua ad
influenzare il presente, il suicidio di una persona cara, e l'Amore,
nell'accezione più vasta possibile, che ti illumina dall'interno e
ti resta dentro, per sempre...
A
colpire c'è innanzitutto l'ambientazione: Charlestone, di cui non
puoi evitare di innamorarti, non solo per la forza delle descrizioni,
ma altresì per lo spirito della cittadina che Conroy ti trasmette e
ti permette di cogliere nella sua essenza più vibrante e vigorosa.
E
poi i personaggi: forti, e molto caratterizzati, soprattutto gli
splendidi (quasi tutti) ragazzi di Charlestone, ciascuno con un
passato drammatico alle spalle, in certi casi non ancora sopito, e
che si rubano la scena l'uno con l'altro, ammaliandoti e
divertendoti, e a cui è impossibile non affezionarsi... E il
protagonista: riflessivo, sensibile, simpaticissimo, e molto
positivo, che però è capace di riservare sorprese...
La
trama ha come nucleo una bellissima amicizia, con le sue
complicazioni e i suoi drammi, quella dei ragazzi di Charlestone,
appunto, che si snoda negli anni, dall'adolescenza sino alla
maturità, e in cui emergono differenze caratteriali e sociali, in
cui i personaggi si scontrano e si completano tra loro, trovando
ciascuno la propria dimensione negli altri e, laddove è possibile,
negli altri la propria salvezza.
Forse
la vicenda si perde un po' verso il finale, e ci sono alcuni elementi
che appaiono forzati e poco genuini (la morte di un personaggio, in
particolare, risulta gratuita, pretestuosa e sembra volta solo a
cercare di impressionare il lettore), ma sono difetti che possiamo
perdonare, alla luce di tutto il resto.
Un
romanzo corale, avvincente, commovente, ma anche carico di tensione,
di segreti, e di scoperte, sostenuto da dialoghi brillanti e da una
bellissima prosa, ma soprattutto dai suoi meravigliosi protagonisti.
Un
romanzo scritto per essere amato e da cui, come lettore, ti senti
totalmente ricambiato, tanto che fai davvero fatica a lasciarlo
andare. Durante la lettura, ma anche dopo che l'hai finito.
Il
Mio Perfido Marito è davvero perfido e probabilmente mi costringerà
ad abbonarmi ad uno studio di psicologi (certo, c’è chi ritiene ne
abbia bisogno a prescindere…).
Il
punto? Il punto è la carenza di coccole!
Ogni
volta che mi avvicino per dargli amore vengo respinta, con accuse
quali: mi mozzi il respiro, mi blocchi la circolazione, così mi
procuri l’amputazione di un arto, mi perfori lo sterno, questa è
una chiave articolare (mossa di Wrestling)…
Ma
insomma! Neanche tentassi di ucciderlo! E non è che io sia un titano
di donna, au contraire… E’ solo che mi piace dormire in certe
posizioni di tenero incastro, con le gambe sul suo pancino morbidoso,
e le braccia avvolte alle sue tondosità, come una scimmia aggrappata
al cocco…
Il
massimo che mi viene concesso, però, è di infilare un piede fra le
sue gambe, mentre lui usa la mia testa come appoggio per il Kobo (un
coso per leggere gli E-book), cui si dedica quella mezz’oretta
prima di cominciare a sognare (a sentire il diretto interessato,
naturalmente, lui non è che una povera vittima: costretto a girare
le pagine con il naso)…
Più
spesso vengo tacciata di “piovrosità” (da piovra) e allontanata…
Anche perché tengo orribilmente caldo, pare… Ma uffa! Mon amour,
guarda che il quotidiano tributo di baci rientra tra i miei privilegi
coniugali, e anche qualche fettina di carne abbracciosa!!!
Del
resto i miei approcci in pubblico hanno esiti anche peggiori: di
tanto in tanto, quando vedo il MPM farmisi incontro, da lontano, non
resisto alla tentazione e corro verso di lui come una novella Candy
Candy.
Il
copione vorrebbe che il mio tesoro spiegasse le braccia, trepidante,
e mi accogliesse stringendomi a sé e sollevandomi nell'aere,
facendomi volteggiare, magari in una nuvola di fiori magicamente
apparsi (come nel manga di Candy)...
Invece?
Che fa il Mio Perfido Marito?
Mi
osserva, aspetta il momento buono, e… scappa!
Non
sto scherzando! Fugge via!
Dice
che lo terrorizzo, perché carico come un toro e sembro volerlo
investire...
E
a me tocca inseguirlo come Margherita con il Doctor
Beruscus!
Ma si può? Okay, lì per lì la faccenda è così comica che mi fa
morire dal ridere... Però, dai! E si nasconde pure, il malvagio! Mi
occhieggia da dietro le piante! Misericordia, mi fa sentire proprio
un vecchio satiro... E sì che io voglio solo un abbraccio, e magari
qualche bacetto extra... Mica stuprarlo, giuro!
Se
poi capita che non riesca a tenere a freno il mio ardore e mi scappi
un morsichino sul suo collo... Mi becco pure uno sculaccione!!! Sul
serio, sulla natichella triste, quasi mi dovesse educare!
Poi
le mie amiche si stupiscono se ogni tanto sbaglio e chiamo mon amour
“mamma”!
Va
mu...
A
lui, comunque, non dispiace...
P.S.
Se
nell'universo ci fosse qualche altra povera anima nella mia infelice
situazione, ecco un articolo utile per la notte: il cuscino fidanzato
a forma di braccio!!! Beddissimo!
Io
adoro questo tipo di romanzi! Quelli in cui non è un adulto che
scrive (a prescindere dall'età), ma un bambino, che ci mostra la sua
quotidianità, i suoi amici, la scuola, e i suoi candidi e bellissimi
modi di ragionare, riportandoci all'infanzia, rifacendocela vivere
attraverso i suoi occhi, che sono un po' anche i nostri (poco importa
che noi non avessimo dieci anni nel 1968 e che non siamo
irlandesi)... Crudeli, a volte. Ma così logici ed esatti! Così
ingenui e genuini!
E
qui, in questo romanzo senza trama, fatto di pensieri che si
aggregano e che ci commuovono e divertono, il bambino è autentico,
puro, senza artifici.
Allegro,
dispettoso, scanzonato, dotato di senso dell'umorismo e bramoso di
avventure...
Paddy
non racconta esattamente una storia, non ci sono un vero inizio ed
una vera fine: si poteva cominciare dopo e concludere più tardi...
Piuttosto ti offre un periodo della sua vita, in cui non va proprio
tutto bene, e in cui anzi le cose tendono a peggiorare, a
guastarsi... soprattutto in casa, dove papà e mamma litigano di
continuo. Fa ridere e fa sorridere, ma ad un tratto il romanzo assume
una piega amara.
Paddy
se ne accorge, ma senza capirlo davvero: perché non è ancora
corrotto, perché il mondo per lui è bello e interessante, e le cose
semplicemente vanno così, senza tante spiegazioni.
Quindi
lo accetta.
Ma
si fa domande.
Senza
retorica, però, perché i suoi non sono gli interrogativi che si
porrebbe un adulto.
Ma
Paddy sta crescendo, e nel farlo si rende conto che non sempre ad
aspettarlo c'è la felicità.
Scritto
benissimo, con semplicità e scorrevolezza, ti conquista subito per
la sua immediatezza e godibilità.
E
poi ti rimane dentro, indefinibile, come qualcosa di speciale, a cui
vorresti ritornare, anche se sai che ormai è finito.
Per
anni ho inseguito questo libro negli altri romanzi di Doyle, che mi
hanno intrattenuto, emozionata, e divertita. Ma mai con la freschezza
e il coinvolgimento di questa piccola perla.
Un film
geniale: mascherato da lungometraggio di fantascienza (in stile
documentaristico) è in realtà una denuncia contro il razzismo e
l’apartheid in particolare.
La scena,
infatti, si svolge a Johannesburg, in Sudafrica, nel Distretto 9: una
sorta di fatiscente baraccopoli dove dagli anni ’80 sono stati
relegati gli alieni (detti “gamberoni” giacché somigliano a dei
crostacei antropomorfi, decisamente sgradevoli e volutamente
bruttarelli) che, in seguito ad un guasto alla loro astronave, sono
stati costretti ad atterrare sulla terra, mezzi morti di stenti. Qui
vivono in condizioni pessime, affamati e sporchi, nutrendosi di cibo
per gatti (di cui sono golosi, al limite della dipendenza) e venendo
coinvolti nel mondo criminale nostrano.
E se in
principio anche noi guardiamo agli alieni come ad un problema ed un
fastidio, nella prosecuzione della pellicola è con loro che
simpatizziamo e ci immedesimiamo… L’uomo è cattivo, senza
rimedio, senza riscatto (atroce la parte relativa alla
sperimentazione scientifica), pronto solo ad approfittare del
prossimo, a sfruttarlo, e poi a buttarlo via… Salvo quando la sua
prospettiva viene coattivamente ribaltata e si trova, suo malgrado,
nelle stesse condizioni di chi fino a poco prima ha solo disprezzato.
Perché finalmente apre gli occhi. E il cuore.
Una
concezione degli alieni originalissima, in cui gli stessi sono visti
non come minacciosi invasori, ma neanche come creature superiori in
missione di pace, o teneramente affettuose, ma alla stregua di
profughi, sporchi e ripugnanti… che però si rivelano
straordinariamente umani.
Una
pellicola spettacolare, intelligente, che fonde film verità,
action-movie, e splatter, e che non punta solo sugli effetti
speciali, ma che vanta una trama solida e intenti lodevoli, specie
sul piano morale.
Uno
scrittore potente, romantico, capace di incantare, di creare
atmosfere magiche, altamente suggestive, ricche di descrizioni
intense e pregne di bellezza, di riverberi, di luci e di ombre, con
qualche sfumatura macabra o inquietante.
Zafón
sa costruire trame complesse, accattivanti, un po' barocche, in cui
abbondano misteri, intrighi, e segreti oscuri.
I
suoi personaggi sono sempre molto caratterizzati, pronti per
affascinare e per suscitare sentimenti forti, nel bene e nel male...
Bellissimi o bruttissimi, e dal cuore gonfio di passione, e, talvolta
di rimpianto, di nostalgia, di dolore.
Le
ambientazioni sono dettagliate, e sembra di respirare la stessa aria
dei protagonisti, perché i luoghi vengono colti nella loro essenza
più viva e ti entrano dentro (Barcellona, soprattutto) diventando
parte di te.
Lo
stile è poetico, ma molto scorrevole, attento alla scelta di
vocaboli evocativi.
Insomma,
tanti pregi... ma anche tanti difetti.
Credo
di aver letto tutti i suoi romanzi tradotti in Italia, e posso
affermare che in quanto a tematiche quest'autore si rinnova poco
(chissà perché quest'ossessione per le “creature meccaniche”?)...
Il
punto di partenza è sempre interessante, ma quasi sempre va alla
deriva: la storia si perde e diventa inverosimile... I personaggi
sono quasi tutti eccessivi: troppo buoni, troppo malvagi, troppo
consumati dall'odio: sembrano tagliati con il coltello e non
risultano credibili, apparendo quasi delle caricature.
Anzi,
a confrontarli complessivamente, considerando i vari romanzi, sono
tutti uguali, una dozzina di “tipi” che si ripetono, neanche si
trattasse di maschere da indossare.
Indubbiamente,
esaminando le sue opere in ordine cronologico, dalla prima all'ultima
scritta, si notano rilevanti miglioramenti ed infatti i suoi lavori
più riusciti (che qui sono arrivati per primi) sono gli ultimi. Ma
non per questo esenti da difetti.
Intendiamoci,
le caratteristiche positive mantengono comunque viva la tua
attenzione fino alla fine, e ti invogliano a continuare, a finire...
Le trame sono coinvolgenti, e tu ti senti quasi da subito
completamente assorbito, rapito, affascinato...
Solo
che a volte, dopo che hai terminato il libro, non ti resta granché,
salvo la sensazione di essere stato ingannato, deluso...
Alcuni
sono davvero scontati, tanto che fanno pensare a delle operazioni
commerciali. Allo stesso tempo, però, la scrittura sembra così
sofferta in certi punti, e Zafón
pare così tanto metterci l'anima, che forse si tratta solo di
limiti...
In
effetti, credo che la forza di questo autore sia anche la sua maggior
debolezza: sentire tutto con lo spirito e l'innocenza di un
ragazzino che si sta affacciando per la prima volta all'amore e alla
sofferenza e che vede ogni cosa in termini assoluti, senza grigi...
Questo può spiegare la meraviglia, il senso di stupore, e di
bellezza, ma anche l'inverosimiglianza di tante trame e dei
personaggi...
I
più belli (ma sempre con riserva) per me sono: “L'ombra del vento”
e “Il gioco dell'angelo”, collegati fra loro.
I
più deludenti (e adolescenziali), sia pur piacevoli: “Il principe
della nebbia”, “Marina”, “Il Palazzo della Mezzanotte”, “Le
luci di settembre”.
Trattasi del mio futuro nuovo eBook, che sarà reperibile su Amazon… Temevo non sarebbe stato pronto prima di luglio inoltrato, ma il Mio Perfido Marito (che è anche il Mio Perfido Editore) si sta dando da fare (occupandosi dell’editing, del "cambio di formato", e della copertina) e comincio ad avere delle speranze per giugno. W!!!
In particolare, oggi abbiamo definito la questione della copertina...
Invero, io avevo tutt’altra idea: mi ero premurata di reclutare dei volontari (i prodi Riccardo, Carmine, Andrea Beggi, e mio fratello Androide, che stranamente si era detto disponibile) che avrebbero dovuto essere fotografati dall’alto, in piedi di spalle, intenti ad interpretare rispettivamente i personaggi di Ni, Beta, e Alfa, e il protagonista, Zeta, che invece si sarebbe visto di fronte, legato ad una sedia, prossimo ad essere sottoposto ad un interrogatorio… Gli "attori" erano pronti, il mio spirito in fibrillazione… Ma, ahimé, alla fine ho dovuto rinunciare per noiosi motivi tecnici… Sob!
Mon amour, allora, ha lavorato sull’idea della sedia, decidendo di rappresentarla priva di umani, onde evitare complicazioni, ed ecco le sue tre proposte:
1) la sedia della casa abbandonata
L’ho scartata perché la sedia in questione mi ricorda vagamente una gelateria o una terrazza sul mare e mi pare troppo comoda per un interrogatorio, benché l’ambiente circostante sia perfetto e apprezzi l’atmosfera di fatiscente degrado…
2) la sedia di Van Gogh ritoccata
A mio avviso molto carina: sfrutta il dipinto di Vincent Van Gogh alludendo all’interrogatorio, ma sottolineando al contempo la stravaganza della situazione… Però non ho fatto in tempo a sceglierla perché il MPM mi ha sottoposto immediatamente quest’altra:
3) la sedia di Van Gogh con ulteriori modifiche
Quella che preferisco.
La circostanza che il nero "mangi" l’ambiente con più voracità mi piace e dà un tocco claustrofobia in più… Insomma, ho scelto questa. Se qualcuno non fosse d’accordo (anche se chiaramente dovrà basare le sue valutazioni esclusivamente sulla grafica) me lo faccia sapere… Per il momento sono soddisfatta! Bravo MPM! Se mai dovessi licenziarti come diletto sposo, ti riassumerò senz’altro come grafico!!!
Bellezza
nella sua accezione più vasta, non solo estetica.
Della
natura, della donna, dell'arte.
Ma
anche di Dio.
Non
un romanzo, ma un saggio.
In
un'edizione splendida, molto curata, corredata da moltissime
immagini, e impreziosita con testimonianze significative e
variegate..
Un
percorso attraverso i secoli, i pensieri, e le opere, che hanno
definito la bellezza, spesso in modo contraddittorio e conflittuale.
Sovente
ribaltandone i canoni, gli schemi, i caratteri...
Completo
ed esaustivo, ma lungi dall'essere pedante, risulta invece
avvincente, coinvolgente ed esaltante.
Perché
ci avvicina all'assoluto, all'arte, alla poesia.
Perché
è poesia esso stesso.
Senz'altro
è un'opera intellettuale. Colta.
Raffinata.
Ma
non si esaurisce in questo, perché reca in sé anche qualcosa di
profondamente passionale, di sensuale. E in qualche punto arriva
persino ad emozionare.
A
“cantarti” dentro.
Vibra,
si impenna. Ti colma.
Lo
senti, come quando sei innamorato.
Eppure
non basta ancora.
Perché
racchiude altresì qualcosa di segreto, di spirituale.
Di
mistico.
Che
ti avvicina all'Assoluto. Che per un istante ti permette di toccarlo.
Probabilmente
non c'è nulla in questo libro che non sappiamo già, eppure è
utilissimo perché ci aiuta a mette ordine nei nostri stessi
pensieri, nel nostro sentire, a rintracciare angolazioni e
prospettive, riflessioni, che sono parte di noi, ma di cui prima non
avevamo la consapevolezza. Non così lucida e compiuta.
Non
così esatta.
Un
libro bello da leggere e da rileggere, e da sfogliare e sfogliare di
nuovo.
Ma
profondo. Penetrante.
Intenso.
Perché
in qualche modo ci rappresenta, a livello culturale, artistico, ma
anche intimo, umano: in quanto individui e in quanto specie..
Di
complemento a quest'opera, e sempre di Eco, “Storia della
bruttezza” (più vario, più curioso, più imprevedibile, più
fantasioso. E sicuramente interessante e sbalorditivo. Però non mi
ha elevato allo stesso modo del “gemello”... per quanto sia
comunque irrinunciabile) e “La vertigine della lista” (certamente
interessante e suggestivo, ma anni luce meno rispetto ai primi due.
Più didascalico, meno innovativo, e – per forza di cose – più...
ripetitivo. Anche se, sì... la vertigine si sente).
Ho
ultimato la visione di questa serie Tv un paio di settimane fa e
ancora le immagini mi si stanno assestando in testa: 13 episodi, che
van giù lisci lisci, come un bel bicchiere di acido muriatico...
mentre ti corrodono l'esofago.
“Asylum”
è la seconda stagione di “American Horror Story”, ma è
completa, indipendente. Cambia tutto: l'ambientazione, la trama, i
personaggi... Restano l'inquietante motivetto della sigla e qualche
attore, che è interessante osservare alle prese con un ruolo
completamente diverso: da comparsa a protagonista, da cattivo a
vittima...
Decisamente
preferibile alla prima, anche se sul finale la tensione si allenta,
il sadismo si acquieta, l'efferatezza si riduce... Aumentarli, del
resto, era impossibile, perché si era già al limite, se non oltre:
nei primi episodi (primi 6-7 più o meno) lo spettatore viene
tramortito, traumatizzato, terrorizzato fino allo stremo (davvero,
sembra di venir sottoposti ad un elettroshock, e poi ad una secchiata
di acqua ghiacciata, magari sporca e con i vermi dentro, e poi, belli
bagnati, ad un altro elettroshock...). Non solo le scene in sé, ma
il contesto, l'atmosfera malsana, perversa, il marcio che trasuda
ovunque, contribuiscono... Accresciuti dalla colonna sonora-supplizio
“Dominique” di Suor Sorriso – sic! – (ascoltare per
credere... ne esiste una versione italiana cantata da Orietta Berti),
snaturata e associata alla morbosità esasperata delle situazioni...
E poi l'assenza di redenzione e di speranza, la spersonalizzazione
dell'individuo, il senso di perpetuo soffocamento... Sono
disturbanti. E ti lasciano un po' scosso, un po' nervoso. Prostrato.
Anche dopo che hai spento la Tv. Persino la sigla è faticosa da
sopportare (in senso positivo), straordinariamente ricca, cruda,
fastidiosa.
Siamo
nel 1964 (ma ci sono anche parallelismi con la realtà attuale) a
Briarcliff, un manicomio criminale gestito dalla Chiesa cattolica,
fantasticamente infarcito di orrori, tra i quali i pazienti
(assassini, psicopatici, serial killer, matti generici, ma anche
ninfomani, omosessuali, microcefali, e sventurati innocenti – o un
po' di queste cose tutte assieme –) sono davvero il meno.
C'è
di tutto in questo telefilm: dagli alieni al diavolo, dalle suore
sadiche al mad doctor nazista, dal serial killer all'angelo della
morte...
Una
serie che è un fermento di idee e un avvicendarsi di fatti che si
intrecciano fra loro e a cui, sino a metà, continua ad aggiungersi
materiale (radioattivo e maledetto)... Okay, quasi tutti elementi già
sfruttati, già noti, ma mai amalgamati con tale generosità, con
tanta baldanzosa abbondanza...
E
state tranquilli, non finisce come in “Lost” che poi i filoni
narrativi si spezzano e restano lì, inconclusi, cauterizzati,
dimenticati, generando anacronismi ed incongruenze.
No,
qui tutti i nodi vengono al pettine, la trama è coerente, e
all'incirca da metà diventa più lineare, più snella, i personaggi
acquistano sfaccettature, motivazioni, vengono approfonditi nel
carattere e nella psicologia, assumendo toni più umani. Man mano
che si prosegue nella narrazione si arriva ad affezionarcisi (i miei
preferiti sono Kit Walker e suor Jude, che riserva un discreto numero
di sorprese), mentre i pugni allo stomaco si fanno più sporadici, e
la paura perenne viene sostituita alla curiosità e all'interesse per
la storia.
I
misteri si chiariscono (quasi tutti) e non rimangono dubbi irrisolti.
Spettacolari
anche gli interpreti: James Cromwell – basta che ti guardi, per
farti sentire operato senza anestesia –; la fulgentissima e
splendente Jessicona Lange (suor Jude), che da sola ti sveglia dentro
il terrore inconscio che hai accumulato in tre anni di asilo dalle
suore e che credevi rimosso e obliato... Ma che nell'episodio 10 si
scatena in una canzone frizzante e divertente (per quanto nel
contesto risulti tragica), coinvolgendo i pazienti del manicomio in
un ballo sfrenato, come in un musical o in una puntata di Glee;
Zachary Quinto, che all'inizio pare così dolce, così da sposare...
E che alla fine si rivela il più depravato di tutti; Lily Rabe che
quando è pura ti abbacina con il suo candore, e quando è cattiva,
beh... conviene scappare...
Una
menzione d'onore spetta a Naomi Grossman, l'attrice che dà il volto
a Pepper. Totalmente piatti ed incolore, e pure un po' antipatici,
sono invece Joseph Fiennes e Dylan McDermott, che, poveretti, fanno
quasi compassione vicino a tanti artisti ispirati.
Una
serie Tv diversa da tutte le altre, che supera i confini dell'horror,
e ti scava nelle viscere per divorarle mentre sono ancora calde e
fumanti. Ma poi si pulisce educatamente le labbra in un tovagliolo di
lino, bianco e piegato con cura.
LA
BUSSOLA D'ORO, LA LAMA SOTTILE, IL CANNOCCHIALE D'AMBRA
di
Philip Pullman
(La
Trilogia di “Queste Oscure Materie”)
Una
trilogia fantasy stupenda, scritta con sapienza e maestria. Ma non
solo! L'opera è assai più complessa di un comune romanzo fantastico
e di sicuro non è rivolta ad un pubblico di infanti. Ispirata
vagamente a “Il Paradiso Perduto” di Milton, è infatti
chiaramente anticlericale, e piacevolmente critica e blasfema.
Una
vicenda avventurosa, affascinante, ricca di immaginazione, di
misteri, di trovate interessanti, con riferimenti dotti e colpi di
scena indovinatissimi, a tratti quasi spaventosa (la signora
Coulter
e il suo scimmiotto, tanto per dire...) o semplicemente così intensa
da spaccarti il cuore (il bambino “reciso”). Con un colpo secco,
però, duro, che non ti lascia il tempo per piangere, che puoi solo
ingoiare...
Ci
sono dei bei personaggi, ben delineati a livello psicologico, e dei
bei cattivi, che non sempre sono proprio tali, anche se la narrazione
ti porta a diffidare, e a ribaltare, talvolta, la tua prospettiva...
Ci si affeziona a tutti e si soffre per ogni caduto.
In
quanto alla protagonista, invece, Lyra Belacqua, benché sia
coraggiosa, ribelle, etc. etc., all'inizio – almeno per l'intero
primo tomo – mi è abbastanza antipatica... In compenso, man mano
si prosegue, il suo carattere migliora, si evolve, screziandosi di
sfumature, fino a che, ne “Il cannocchiale d'ambra”, comincio ad
apprezzarla davvero.
Lo
stile è denso di descrizioni, minuzioso, ma incalzante: ti avvolge,
ti cattura. Ti strega.
Bellissima
la rappresentazione dell'anima attraverso i daimon... Il concetto di
peccato, di libero arbitrio...
Notevole
l'opera a livello filosofico-intellettuale, sostenuta da una teoria
articolata e originale.
Una
trilogia convincente, adulta. Innovativa. Profondamente simbolica,
evocativa, fitta di eventi, di emozioni, di suspence. Impegnativa per
tematiche ed implicazioni, che trascendono e permeano il livello di
lettura meramente fantastico, con paralleli e rimandi biblici,
efficacemente reinterpretati.
Dal
primo volume “la bussola d'oro” è stato tratto un film.
Grazioso, in sé per sé, ma a dispetto degli effetti speciali e dei
bravi attori coinvolti (Nicole Kidman, Daniel Craig...), ha ridotto
la complessità del testo ad una favoletta per bambini, impoverendola
drasticamente e privandola di... quasi tutto, salvo il gusto per
l'immaginazione, che però qui resta un po' fine a sé stesso.
Satirico,
eversivo, demonizza l’America e demolisce i suoi valori, ma anche
il razzismo, la misoginia, l'Islam, e quant'altro può venire in
mente, attraverso il personaggio di Sacha
Baron Cohen,
Aladeen, il dittatore di un immaginario stato africano, idiota quanto
crudele ed egocentrico, che racchiude in sé la summa delle
caratteristiche di tutti i dittatori della storia.
La
pellicola tocca temi importanti, ma lo fa divertendo (e
divertendosi), senza freni inibitori, senza “correttezza politica”,
scandalizzando e stupendo lo spettatore, ammiccando, distorcendo,
esagerando, e a volte (negli sketch più riusciti) sfociando
nell'assurdo, nel surreale… Ma con un po’ più di buon gusto
rispetto al volgarissimo e a volte disturbante (in senso schifido)
“Borat” e allo spesso eccessivo “Brüno”
(che però in certi passaggi rasenta la genialità)... Più moderato
nella forma, ma non negli intenti critici, forse con una lieve patina
hollywoodiana...
Del
resto, questo è proprio un film, non un fanta-documentario: vanta
una trama simpatica (che fa persino qualche concessione alla
stucchevolezza) e fa ridere davvero, con intelligenza e arguzia
(anche se al contempo ti si contorcono le budella perché non puoi
dimenticare che, per quanto estremizzati e ridicolizzati, quasi tutti
i contenuti delle gags corrispondono a verità dolorose e irrisolte),
limitando – per fortuna e per quanto possibile – l’uso
dell’umorismo fecale (e ascellare, ancora più disgustoso)...
Oltre
a Baron Cohen – protagonista assoluto e indiscusso – il Cast
sfoggia un insolito Ben Kingsley e una quasi irriconoscibile Anna
Faris (cui il taglio corto e scuro dona assai di più del biondo da
svampita), e una serie di buffi e inaspettati camei (Megan Fox,
Edward Norton)...
Una
pellicola traboccante di trovate feroci e spassose, che ammiccano al
demenziale, ma che intanto mordono, ironizzano e mettono il mondo in
discussione.
Per
questo è così comodo, e a parlarne vi faccio davvero un regalo: che
caspita! Dovrei brevettarlo!
L’avevo
inventato per il Ragno, quando era picculo e indemoniato (ai tempi in
cui lo chiamavo ancora “Pitone”):
“Otta,
quando mi porti sulla Luna?”
Pomerdì!
“Otta,
quando mi regali la tua camera?”
Pomerdì.
“Otta,
quando muori?” – domanda che il mostriciattolo mi aveva rivolto
davvero, e non senza una certa impazienza –
Pomerdì…
Insomma
è il giorno ideale per fare qualcosa di sgradito…
Certo,
dopo un po’ di “pomerdì” il Ragno aveva cominciato a
subodorare la truffa e ad informarsi: “Ma quando viene pomerdì?
Domani? Dopodomani? Quando?”.
La
risposta non gli era piaciuta tantissimo, ma era stata sincera: “E’
un giorno periodico, ma potrebbe anche non capitare mai… Dipende da
tante cose: congiunzioni astrale, umore delle sorelle, l’inclinazione
del sole…”
“Ah!”
aveva replicato il cucciolo, tra il piccato e il deluso.
E
aveva desistito.
Grazie
al cielo senza stressarmi più di tanto.
Pomerdì:
se vi serve, è a vostra disposizione.
Bacissimi.
P.S.
Presto
farò un post sull’attualità e la politica… Di sicuro entro
pomerdì!