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sabato 31 maggio 2014

Vi porterà alla follia!


IL MAESTRO DEL GIUDIZIO UNIVERSALE
di Leo Perutz



Quale colore potrebbe essere più incisivo del Rosso Trommatico? Quale tinta? Quale sfumatura potrebbe mai avere una risonanza più poetica, più abbacinante?
Nessuna...
E nessuna, come questa, vi porterà alla follia!
Il romanzo inizia come un giallo ambientato nella Vienna degli anni Venti: un suicidio che pare indotto, che sa di omicidio, e che forse lo è...
Abbiamo un indiziato, mosso dalla passione, dall'amore, il Barone Von Yosch... E' lui che ci racconta la vicenda, con uno stile puntuale, attento, ricercato, minuzioso... Ma la sua presunta colpevolezza non convince tutti, e nemmeno noi, e all'improvviso il romanzo cambia registro e vira sul metafisico, sul fantastico... Nulla di troppo fantasioso, certo, ma che tuttavia ci risucchia in una storia caleidoscopica, delirante e quasi plausibile, ambigua, ma intricata, e che finalmente diviene davvero interessante, con dei begli echi apocalittici, suggestioni, e misteri intrecciati, che si legano ad altri suicidi, che probabilmente non sono tali, ma parte di un piano più vasto e destabilizzante, e che a loro volta sono connessi agli afflati artistici, ad uno strano personaggio mostruoso ed enigmatico, che forse esiste e forse no, e... a lui, al Maestro del Giudizio Universale!
Se non erro avevo annotato questo libro nella mia “lista di quelli da acquistare” dopo aver letto un'intervista a Tiziano Scavi, suppergiù un milione di anni fa... Ma è stato per una serie di fortunate coincidenze che me lo sono ritrovato fra le mani, e mi ha davvero colpita ed estasiata.
Credo sia stato pubblicato nel 1923, quindi, se non parrà originalissimo, è a causa di chi è venuto dopo, non di chi c'è stato prima (alludo ai riferimenti “al libro”, che un po' ci inducono a ricordare un romanzo di Umberto Eco, di cui non rivelo il titolo, anche se è abbastanza ovvio di quale si tratti). Ad ogni modo, una volta preso l'abbrivio, non riesci proprio a staccartene, anche se te lo imponi, perché ti dici sempre: ancora una pagina, solo una, mentre sei consumato dalla brama di sapere!
E alla fine sai, non ci sono inganni, ogni cosa è rivelata, scoperta ed illustrata.
E va bene, ci sta.
Ma il dubbio ti resta lo stesso, in fondo al tuo cuore, perché non sai se fidarti o meno, ed è una delizia.
E non potrai scordare mai il sublime, terrorizzante, evocativo rosso trommatico!

venerdì 30 maggio 2014

Sex à trois


PASSIONE LAPINA

I conigli non sono come le altre bestiole che vanno in calore un mesetto e poi nulla più. I conigli sono sessuomani, sempre e comunque, e bramano di accoppiarsi ad ogni respiro, in qualunque situazione.
Dado, il nostro cucciolo, non fa eccezione, ed è innamorato delle mie pantofole di Spongebob (che in effetti si presentano come grandi, morbide e confortevoli).
Non è un bruto però: le conteggia con danze amorose, le riempie di coccole, di baci e di premure, e solo dopo si avventa su di loro per possederle con foga. Di norma pretende che ci sia anche il mio piede dentro, che va be', quasi non se ne accorge, se non per il fatto che Dado, dopo un paio di round alla velocità della luce, si stanca e ci si addormenta sopra. Non si sposta volentieri, dopo.
Altre volte, invece, si dà al sadomaso, nel senso che riserva un morsettino finale molto intenso alla malcapitata. In un'occasione, per sbaglio, ha preso il mio polpaccio e, benché non mi abbia provocato un dolore eccessivo (non mi è rimasto neppure il segno), mi sono così spaventata (urlando di gusto e facendo involontariamente scattare la gamba in avanti) che lui è scappato via, terrorizzato. Non ha assalito le mie ciabatte per almeno cinque minuti.
In generale, è piuttosto creativo, e, a parte aver sbocconcellato parti di entrambe le mie pantofole, ama dedicarsi al sex à trois, coinvolgendole tutte e due e producendosi in posizioni semi acrobatiche e complicate.
Trovo affascinante queste sue abitudini, anche perché il primo anno in cui è stato con noi Dado era piccolo e non dimostrava interesse per nulla che non fossero i tunnel, il cibo, la corsa, l'ars rosicchiandi o l'esplorazione... Poi gli ormoni sono esplosi, e lui ha cercato di intessere relazioni in stile stalker con il mio braccio (io, sgomenta e incredula, ci ho messo un po' a capire che stesse combinando) e con la gamba del Mio Perfido Marito... Senza successo.
Il veterinario, però, ci ha consigliato di non castrarlo, povero piccolo (pare ci fosse il rischio di comprometterne la personalità e ritrovarci con uno zombettino di peluche), a meno che non fosse diventato aggressivo, e Dado non lo è diventato. Ha incontrato prima le mie pantofole ed è nata una storia d'amore a tre, in cui tutti vanno d'accordo.
Dado non sporca, non morde (a parte il morsichino post amplesso alle ciabatte), ed è un buon coinquilino.
Insomma, se qualche “coabitante di coniglio” si trovasse nella stessa situazione, consiglio l'acquisto di un paio di pantofole di Spongebob.

giovedì 29 maggio 2014

Riscoprire il Muto


VIALE DEL TRAMONTO
di Billy Wilder

(1950)
 
 
Melodramma semi-horror, ferocissimo noir senza tempo, un classico che sfiora la Commedia Nera e incanta lo spettatore in una dimensione cristallizzata nel ricordo e nel vano tentativo di perpetuarlo, fatta di nostalgia, di rimpianto e di illusioni al fiele. Fino a che la bolla di sapone non esplode, e il sogno finisce con un tragico risveglio. O un sonno eterno, quello che incocciamo all'inizio.

Perché, quando conosciamo il nostro protagonista-narratore, lo troviamo a faccia in giù in una piscina. Stecchito da un colpo di pistola.

Come è arrivato lì? Chi lo ha ucciso? Chi è?

Trattasi di Joe Gillis (William Holden), giovane e scanzonato soggettista di cinema, dalla vita disastrata, ma non senza talento, di cui percorriamo a ritroso la storia (esatto, come Kevin Spacey in American Beauty), e in particolare i suoi ultimi mesi, che sono anche quelli della ex Diva del Cinema Muto, Norma Desmond (Gloria Swanson), cinquantenne ormai “tramontata” da che si è passati al sonoro, ma incapace di accettare il fatto, e desiderosa di interpretare il film che (secondo le sue ottimistiche previsioni) la riporterà alla ribalta.

E vuoi per caso, vuoi per necessità, complice il funerale della sua scimmietta, il compito di correggere e sistemare il copione scritto da Norma sarà affidato proprio a Joe, che, pagato profumatamente, dovrà però accettare di vivere presso la bellissima, quanto fatiscente, villa della ex Diva. Naturalmente, insieme a lei.

Attori superbi (Gloria Swanson insuperabile, con magnifiche espressioni di agghiacciato sdegno che potrebbero da sole rendere la pellicola eterna), personaggi romantici sino al parossismo, ma ancora più grandi e spiazzanti per questo nella loro devozione assoluta e priva di riconoscimenti (il maggiordomo Max, interpretato da Eric von Stroheim), frasi memorabili, dialoghi incisivi, contrasti e sentimenti in conflitto, in primis quelli dello spettatore, rapito dalla trama, affascinato dai protagonisti, a volte divertito, altre ammaliato, ma ansioso di divincolarsi dalle spire fameliche di Norma... Passioni devastanti, grottesche, stupore, smacco e... cinema! Cinema dentro e fuori, nella sua anima, nella sua magia, nei suoi risvolti più oscuri e drammatici (toccanti certi momenti, e belle, nonostante tutto, le scene del regista Cecil B. DeMille, nella parte di se stesso) che giocano sulla denuncia e sulla critica, ma al contempo non possono evitare di esaltare e cantare proprio l'odiato (amato) oggetto di questi strali: il cinema, appunto, “nuovo” e “vecchio”, inducendoti inevitabilmente a desiderare di riscoprire il Muto, con i suoi occhi dilatati, i primi piani, le espressioni esagerate...

Segnalazione: anche il blog del Mio Perfido Marito, Delittando, ha dedicato un post a “Viale del tramonto” (3 gennaio 2014), e come al solito, è molto diverso dal mio per esposizione e, in parte, per contenuti...

mercoledì 28 maggio 2014

Un mix di egocentrismo e scemenza


IL MALINTESO
di Irène Némirovsky
 
 
Una storia d'amore, in cui, dell'amore, manca persino il profumo.

Se non fosse che la scrittrice è animata dall'intento di denunciare proprio il bel mondo fatuo che descrive, e che lei stessa detestava, questo sarebbe un romanzetto da dare alle fiamme. Intendiamoci, è ben scritto, con garbo e preziosismi, c'è una buona analisi dei personaggi e uno sviluppo narrativo lineare e coerente. Ma è proprio l'insulsaggine della trama e dei suoi protagonisti a risultare esasperante e ad irritare (volutamente) il lettore.

Ed è qui che sta il genio della Némirovsky, nell'apparire vanesia e sciocca, quando invece il suo sguardo è acuto e sferzante, crudele, e amaro di bile. Perché lo scopo non è esaltare i suoi manichini vuoti e imbellettati, ma metterli alla berlina, e con essi le regole che li alimentano e ne sono parte.

E che sono un cumulo di ipocrisie, e autoassoluzioni edonistiche, e scuse.

Perché, come insegna la madre alla figlia, se l'amore della tua vita non può dedicarti abbastanza tempo poiché deve lavorare (che villano ad averti fatto credere che può oziare tutto il giorno atteggiandosi a ricco quando non lo è), allora trovati un trastullo, tradiscilo, e starete meglio entrambi. Dopotutto lo fai per amore. In effetti il consiglio sarebbe anche buono, visto quanto è stupida e ossessionante e priva di interessi la giovane (naturalmente sposata con un terzo, quello che la mantiene nel lusso, che tuttavia è un uomo sagace e ha il buon senso di capire ed accettare la situazione con sottile divertimento), però dovresti avere altresì il buongusto di non farti beccare.

Egoismo e vacuità si sprecano e scontrano in questo romanzo, i sentimenti spacciati come amore sono un mix di egocentrismo e scemenza, la società descritta, quella francese dei primi decenni del '900, è improntata all'eleganza, allo sfarzo, alla mondanità... ma sotto... niente.

Al massimo un po' di prurito.

Un ritratto al vetriolo attualissimo, ben mascherato, e ben lucidato.

Che ti lascia con un pugno di mosche.

Morte.

E un sogghigno.

Smagliante.

martedì 27 maggio 2014

Tanta umanità


LA FIGLIA DELLA FORTUNA
di Isabel Allende
 
 
Vagamente collegato con “La Casa degli Spiriti” e, un po' di più, con “Ritratto in seppia”, può essere tuttavia letto indipendentemente da essi: i riferimenti, infatti, sono un mero valore aggiunto per i nostalgici, che li apprezzeranno e si esalteranno, ma non pregiudicheranno in alcun modo la lettura agli altri.

Il romanzo narra le avventure di Eliza Sommers, fanciulla cilena allevata a Valparaiso da tre fratelli inglesi, e come tale destinata ad una vita agiata. Lei, tuttavia, preferisce fuggire di casa, all'inseguimento dell'amore della sua vita (che è anche il primo che ha conosciuto), tale Joaquin Andieta, andato in California in cerca di fortuna, ai tempi della corsa all'oro.

Uno dei romanzi più ispirati della Allende: va bene, manca la dimensione epica e fantastica de “La casa degli Spiriti” (niente fantasmi, niente soprannaturale), ma ci sono dei bei personaggi (Tao più di tutti), tanta umanità, tanto affetto, una forte volizione, emozioni, peripezie tra il drammatico e il faceto, un'atmosfera piena e rotonda, dagli echi sensuali, che ti coinvolge sin dalle prime righe facendoti respirare passione e fame di vivere, ma anche la polvere del far West, e poi... e poi c'è l'amore.

Io odio le storie d'amore, ma questa mi è proprio piaciuta, anche perché non va come ci si aspetterebbe. Ma molto meglio. E, se vogliamo, ci mostra che cosa è davvero l'amore con la “A” maiuscola, a dispetto di molte favole e romanzetti rosa.

Attualmente questa soluzione (con tutto che è realistica e naturale) può non sembrare così contro corrente, così fresca e spontanea, ma il romanzo ha una quindicina d'anni sulle spalle e all'epoca, be', per lo sviluppo della trama si poteva ancora considerare un vivace colpo di scena.

Invero, il plot non è eccezionale. Se si eccettua il particolare di cui sopra non ci sono elementi di genialità: è semplice, lineare, abbastanza comune. Ma è il modo in cui viene raccontato a renderlo splendido, a tenerti incollato alle pagine: quello stile fatto di intimità, di forza, di energia, alimentato da descrizioni superbe e caratteri definiti e complessi... Quell'esigenza di assoluta libertà, che fa rima con anticonvenzionale, ma senza forzature, solo perché si ha la capacità di accettare il prossimo esattamente com'è e di cantarne la bellezza, di adattarsi ad ogni situazione senza sgomento, ma soprattutto con una punta di curiosità, scoprendo sempre nuove cose, degli altri, ma ancor più di se stessi.

lunedì 26 maggio 2014

Tutti conoscono tutti


BROADCHURCH
 
 
Telefilm in 8 episodi, da circa cinquanta minuti ciascuno.

Lenti, ma di una lentezza che ammicca al cinema svedese, che serve a creare l'atmosfera e a far ricadere sullo spettatore tutto il peso di quel che sta succedendo, reso ancora più triste dalle sfumature cromatiche, che sanno di grigio, di sbiadito, quasi che i colori, come la felicità, fossero stati portati via.

Broadchurch, nella tradizione delle serie Tv post Twin Peaks, è il nome della cittadina inglese in cui si svolgono i fatti. Anche qui, dunque, abbiamo un paesino in cui tutti conoscono tutti, apparentemente senza mistero, ma che, come vuole la tradizione, nasconde invece molti segreti.

C'è poi, naturalmente, l'omicidio, questa volta quello di Danny Latimer, un ragazzino di undici anni, amato dalla famiglia (che però non si è accorta che questi neppure è venuto a dormire a casa) e dalla piccola comunità. Prima pare un suicidio o un incidente, poi diviene chiaro che non lo è. Non manca nemmeno il duo di indagatori, una coppia improbabile quanto ben assortita: l'ispettore Alec Hardy (David Tennant) e il sergente Ellie Miller (Olivia Colman). Lui: cinico, pragmatico, forestiero, disastroso nei rapporti interpersonali e dal passato scomodo e oscuro, che lo ha indotto a ricercare l'anonimato in una cittadina di provincia; lei: sensibile, piena di riguardi per il prossimo, mamma, moglie e detective dal cuore d'oro, coinvolta emotivamente nelle indagini.

In effetti, sono i personaggi più riusciti della serie, ed anche gli unici a cui ci si riesca ad affezionare (molto è merito dell'espressività dell'attrice che interpreta Ellie Miller e dal contrasto di personalità che si crea fra i due: la scena dell'invito a cena è quasi comica e certi dialoghi sanno vagamente di cabaret...)

In quanto alla famiglia della vittima, invece, sono uno più odioso dell'altro: tutti io io io (con la sola eccezione della nonna) egoisti, ingrati e ingiusti.

Ma perfettamente intonati al loro ruolo (a parte l'assurda espressione perenne del padre Mark (Andrew Buchan), che pare sempre intento a trattenere una risata, anche nei momenti più drammatici). I comprimari sono delineati in modo adeguato, e alcuni personaggi (Susan e Nigel tra tutti) sono meravigliosamente irritanti, fin dalla fisionomia.

La storia è ben congegnata, riuscendo ad incuriosire lo spettatore anche con quello che sembra un filone già saturo, spostando l'attenzione dall'uno all'altro dei possibili colpevoli e dandoci buoni motivi per dubitare di ognuno.

Il finale, tuttavia (almeno per me) risulterà sorprendente (ma ammettiamolo, ci si poteva arrivare), e tuttavia leale e coerente sia con i personaggi che con la trama. Non solo, riuscirà altresì a indurci a guardare molti dei fatti avvenuti con uno sguardo nuovo. E, forse, un fazzoletto in tasca.

Nel complesso un buon telefilm, benché proprio non capisca come possa presupporre una seconda stagione... Eppure... Eppure è così, e alla fine, dopo che tutti i fili sono stati annodati, ecco che arriva un bel continua...

domenica 25 maggio 2014

Quell'atmosfera di sospensione...


DANZA DELLE OMBRE FELICI
di Alice Munro

Quindici racconti brevi, di cui l'ultimo dà il titolo alla raccolta; primo libro della vincitrice del Nobel 2013, nonché primo che leggo tra i suoi.

Pare che gli altri siano migliori e più maturi, ma a me questo è piaciuto: per la sua levità che cela profonde risonanze, per la sua sensibilità, tutta femminile, attenta a quelle sfumature che un uomo di solito non nota, per lo stile puntuale, energico, un po' retrò, per quell'atmosfera di sospensione che sa creare ogni tanto e che pare preludere a qualcosa di eccezionale, che non avviene, fino a che non ti accorgi che invece lo hai appena vissuto...

Si parla di esclusioni (a tanti livelli differenti: dal mondo paterno, dalle amiche, nelle dinamiche del ballo scolastico, dai sentimenti di colui che fino a poco prima si aveva la convinzione essere il futuro marito...), di personaggi che non riescono ad integrarsi e che sperano di farlo, di rapporti sottintesi, delusi, frustrati, di pensieri sussurrati, di attimi inesprimibili, per pudore o per impalpabilità, e che tuttavia la Munro riesce a cogliere lo stesso, con una finezza psicologica che mi ricorda Elizabeth Strout (la quale, però, tende ad essere più dura, più severa).

Non sono difficili, per nulla, e nemmeno troppo malinconici, anzi rilassano, distendono, ed hanno un sapore intimo, personale, che pare cullarti, mentre ti scuote. Perché sotto taluni aspetti lo fanno, invitandoti a riflettere su situazioni che possono essere diverse, ma che siamo portati a vivere quotidianamente, dall'interno o dall'esterno, a seconda dei casi, e che qui vengono analizzate nel dettaglio, dando risalto a particolari che normalmente diamo per scontati o non afferriamo nella loro interezza. E perché, se le cose vanno male, non è che noi siamo costretti ad accettarle... Possiamo ribellarci, a modo nostro, ed evitare almeno la connivenza. Anche se spesso la nostra sarà una ribellione silenziosa, e puramente mentale...

Non ci sono soluzioni, infatti. Quanto piuttosto un percorso di apprendimento e scoperta, che poi è quella della vita. Fatta di dolcezza, ma anche di tanti momenti amari.

Tra tutti, il racconto che ho preferito è “Lo Studio”, ma non è il più bello, è solo che l'ho trovato affine al mio spirito: divertente, sognante ed esasperante in egual misura. Tra quelli che davvero considero i migliori (ma non ci sono grandi sperequazioni: la mia preferenza è determinata più dall'argomento che dai pregi letterari): “Le case bianchissime”, “Maschi e femmine” e lo stesso “Danza delle ombre felici”, che reca in sé una bellissima morale.

Dolente il quadro che si fa della provincia canadese. E anche tristemente realistico.

sabato 24 maggio 2014

Come Daltanious...


LISTA DELL'ODIO
 
 
Avevo in programma un post su “Il Barone Rampante”, ma non riesco a metterlo insieme: il mio umore è più variabile delle condizioni meteo, privo di equilibrio e soggetto a picchi di depressione acuti e immotivati. Oggi è uno di quei giorni... e che c'è di meglio per risollevarsi il morale di una bella lista dell'odio (tipo quella di cui si pasce Arya Stark prima di andare a dormire, quella, per intendersi, in cui lei enumera i nomi di chi si ripromette di uccidere)? Già sorrido all'idea.

Oh, lo so, c'è chi obietterà che sarebbe più maturo e produttivo che mi concentrassi, invece, su cose che amo... Ma non se sei me. Perché le cose che odio hanno il potere di farmi ridere.

Una lista di amenità e gioie si limiterebbe a destare il mio interesse per un paio di istanti, facendomi ripiombare quasi subito nel mio pessimismo cosmico, mentre una lista dell'odio... be', una lista dell'odio è una cosa seria. E le cose serie mi fanno sganasciare.

Il mio unico cruccio è che sarà senz'altro incompleta, probabilmente non odio abbastanza (in effetti, da brava nichilista, tendo all'indifferenza).

Comunque... al primo posto metto gli stupidi, come Daltanious (riferimento alla sigla). E' che mi annoiano. E mi irritano. E mi inducono a immaginare modi creativi per impalarli. Non tanto quelli che hanno un q.i. basso, quanto quelli che si comportano da tali (sì, in effetti bisognerebbe anche citare Forrest Gump, con il suo “Stupido è chi lo stupido fa”).

Al secondo posto piazzo quelli che io chiamo “I signori della Trave”, ossia coloro che razzolano nel sudiciume umano, divertendosi ad additare e giudicare tutti per le pagliuzze che hanno negli occhi senza accorgersi della trave che c'è nei loro. Si nutrono della mestizia e dello scandalo, seminando etichette dall'alto della loro miseria umana. Sovente rientrano anche nella prima categoria.

Al terzo, ecco gli “S.T.R.”, ossia quelli che non hanno il minimo rispetto per gli altri, nelle piccole e nelle grandi cose. Mai, manco per sbaglio. E magari loro pensano pure di sì (perché tanto non si accorgono di niente tranne che di loro stessi), e, dato che non hanno mai ammazzato nessuno... si credono pure delle brave persone. Ha! Ha! Ha!

Bene, direi che mi sono risollevata. Non sto neanche a baloccarmi con cosucce come le malattie, la politica o le zanzare... E scrivo il post per domani.

Gné gné a tutti.

E baci.

venerdì 23 maggio 2014

Un'opera eterna


V FOR VENDETTA
di Alan Moore e David Lloyd
 
 
Avete visto il film? Dimenticatelo.

Non dico che sia brutto, perché non lo è: un piacevole action-movie con qualche tematica interessante e bravi interpreti... Ma la trama originale, il messaggio che ci sta dietro (che si ramifica e moltiplica in un caleidoscopio di digressioni), la varietà stilistica (dal monologo alla Joyce al pentametro giambico...), la complessità dei personaggi (o la loro voluta banalità), della trama, dei riferimenti artistico-letterari, delle riflessioni: tutto risulta tragicamente ridotto e impoverito rispetto alla sua fonte ispiratrice, questa sublime graphic novel, pietra miliare del fumetto mondiale. Un capolavoro, un'opera di alta letteratura... Che del resto non si può condensare in appena 132 minuti di pellicola, con le sue pagine fitte di disegni e parole e interstizi.

In evidente contestazione con la politica thatcheriana, Moore ambienta la sua opera in un futuro distopico in cui l'Africa non c'è più (distrutta con una bomba nucleare) e l'Inghilterra è dominata da un regime totalitario di impronta fascistoide che controlla ogni aspetto della vita dei suoi cittadini, cercando di inibirne il pensiero tramite propaganda, repressione e tv spazzatura... Chi non si conforma (magari solo perché appartiene ad una qualche minoranza) finisce in un bel campo di concentramento.

Solo il nostro V, dotato di astuzia, coraggio, carisma e maschera bianca da Guy Fawkes (cospiratore che nel 1605 ha tentato di far saltare in aria il Re e il Parlamento inglesi), cerca di opporsi a tale stato di cose, ricorrendo, quando è il caso, alla violenza.

Noi però seguiamo le sue gesta dal punto di vista dei comprimari, ed in particolare di Evey, una bella fanciulla in difficoltà, salvata da V in un frangente pericoloso e che presto assurgerà a protagonista, cambiando nel profondo anche come persona.

La trama, naturalmente improntata alla vendetta (o si tratta di giustizia?), è più complicata di come possa apparire all'inizio e ricca di sfaccettature. Sotto alcuni profili, legata com'è agli anni 80, può ormai apparire datata, ma solo a livello marginale, perché nei suoi paradigmi essenziali rimane un'opera eterna ed intramontabile, anche se, certamente, adesso ha perso parte del suo carattere eversivo (ai tempi in cui è stata scritta il solo toccare certi argomenti in un fumetto era fantascienza) e non sembra nemmeno più tanto originale. Se devo essere onesta, la prima volta in cui l'ho letta mi era parsa meravigliosa, ma non eccelsa, specie se confrontata con Watchmen, e solo alla seconda lettura, avvenuta anni dopo, sono riuscita a rivedere la mia opinione, potendo cogliere aspetti che in un primo tempo avevo trascurato. Uno dei suoi massimi motivi di interesse è senz'altro l'eclettismo narrativo di Alan Moore, ma non è immediato. La trama coinvolge, ma il segreto della sua bellezza sta più in ciò che resta tra le righe che in quanto viene esplicitato (con tutto che alcuni passaggi sono semplicemente magistrali) con la conseguenza che richiede un po' di tempo per sedimentarsi ed attecchire, e quindi per essere apprezzata appieno.

giovedì 22 maggio 2014

Totalmente originale!


IL CACCIATORE DI ZOMBIE
(Juan de Los Muertos)

di Alejandro Brugués, 2011
 

Film stranissimo, disseminato di gratuite crudeltà, amoralità dilagante e risate di pancia, con molte idee geniali, scontri esaltanti, un po' di strascicata stanchezza malinconica e discreto gore... Vulnerato soltanto da una lieve lentezza, da un ritmo che di tanto in tanto inciampa, che però, magari, può essere atmosfera...

No, non storcete il naso, anche a me gli zombie hanno un po' stufato, ma questa è senza dubbio un'opera diversa dalle altre e totalmente originale!

Siamo a Cuba, al cospetto di attacchi terroristici sempre più efferati: si tratta dei dissidenti sovvenzionati dagli americani (questo ci ripete la Tv), e si deve fare attenzione, perché persino il tuo vicino di casa o il tuo migliore amico possono passare al nemico... Intendiamoci, la situazione è sottocontrollo, ma bisogna stare in campana...

Anche se a Juan, un pescatore debosciato sui quaranta, e ai suoi amici nullafacenti, Lazaro e California, la situazione non pare sotto controllo proprio per niente... E, davvero, 'sti dissidenti sono sempre di più, sono aggressivi e hanno la cavolo di abitudine di cercare di azzannarti... E poi non crepano facilmente... Sono davvero dissidenti? O qualche maledetta creatura soprannaturale? Però l'aglio non funziona, e nemmeno esorcizzarli serve...

Insomma, è chiaro no? Sono zombie!!!

E possono fare la fortuna di uno che, come Juan, vive di espedienti: così ci armiamo con quel che la fantasia ci suggerisce e mettiamo su un'allegra e proficua società (alcuni membri, ad esempio Il Primo o Cina, sono un'adorabile meraviglia), con l'alto scopo sociale di riuccidere i vostri cari, appena risorti, in cambio di soldi...

L'elemento più riuscito è il dileggio della censura di Regime, ma la satira va anche in altre direzioni, includendo la persecuzione dei trans (Cina) e il consumo di alcolici, dialoghi surreali e momenti squisitamente grotteschi.

Anche sul piano tecnico la pellicola non è malaccio: ci sono buoni effetti, zombie subacquei, omicidi creativi, un bel po' di greggi di vaganti (per dirla alla The Walking Dead), e alcuni combattimenti niente male!

La fine è una sorpresa, spledidamente coerente con il protagonista, mentre i titoli coda “disegnati” sono molto incisivi, intonati alla colonna sonora. I personaggi, però, non risultano simpaticissimi (a parte i comprimari), e benché non si tratti della solita carne da macello che non vediamo l'ora di vedere sacrificata, pur avendo molti pregi e non pochi motivi di fascino, restano persone orribiline.

E anche se viene quasi naturale il paragone con “L'alba dei morti dementi”, lo spirito è diverso. Pure qui si ride, ma con una certa sofferta amarezza, con una logica più spietata, più amorale, e meno scanzonata. Meno affetto per i protagonisiti.

P.S.

Citazioncina volante del buon Rocco Siffredi (che secondo le mie fonti viene un poco sottovalutato)!

mercoledì 21 maggio 2014

Un prodotto di perfetto equilibrio


LA COMPAGNIA DEI CELESTINI
di Stefano Benni
 
 
Forse dipende dalla circostanza che questo sia il suo primo libro che ho letto, forse dal fatto che all'epoca ero ancora abbastanza giovine (“La Compagnia” era appena uscito), ma tra i romanzi, racconti e filastrocche di Stefano Benni (non li ho divorati tutti: dopo un iniziale periodo di entusiasmo ho proceduto a singhiozzi e da anni rimando di confrontarmi con “Elianto”, a detta di tanti amici la migliore in assoluto fra le sue opere, che pure conservo a portata di mano), questo è il volume che preferisco!

Di norma di Benni apprezzo le singole trovate, lo stile brioso, i tocchi di surrealtà, ma la trama, seppur mai spiacevole e sempre amenamente scritta, in se per sé stenta spesso a convincermi e sovente mi appare scontata, poco originale, volta a stupire per l'autoreferenziale piacere di stupire, e non di raccontare, e quindi abbastanza fine a se stessa: fatta di frammenti interessanti, sommati ad una rutilante accozzaglia di facili stravaganze, ma con un impianto di base debole, farraginoso. Perché la fantasia non è immaginazione, e le due non vanno confuse...

Invece...

Invece, ricordo “La Compagnia dei Celestini” come un prodotto di perfetto equilibrio, con una trama spassosa e appassionante, ricca di colpi di scena, di personaggi che non si limitano ad essere “carini” o bizzarri, ma che ti portano all'immedesimazione e di cui ti stanno a cuore i destini e la felicità.

Se vogliamo, poi, è pure una metafora del mondo di oggi, in cui ciò che c'è di buono deve soccombere dinanzi alla malvagità dei potenti che pensano esclusivamente al proprio tornaconto personale, ma che comunque non ne potranno godere, in quanto le loro azioni gli si ritorceranno contro...

C'è pure la lotta tra bene e male, riconoscibilissima nella finale di Campionato di Pallastrada fra le squadre dei Devils e dei Celestini (nomi non casuali...).

Ed è questo, infatti, il motore del romanzo: il torneo di Pallastrada, una specie di gioco del calcio, cui tre degli orfanelli ospiti dello squallido brefotrofio della città immaginaria di Gladonia (parodia del Bel Paese), nonché fondatori della Compagnia dei Celestini (una banda di orfani), vogliono a tutti i costi partecipare... Quindi fuggono, inseguiti dall'odioso Don Biffero, il responsabile dell'orfanotrofio, e da Don Bracco, dal sorprendente olfatto... Il tutto all'ombra di una misteriosa profezia...

Davvero, questo romanzo mi era piaciuto da matti: avevo sghignazzato di gusto, mi ero emozionata, e avevo trovato i personaggi una delizia... Se poi si pensa che al calcio ho sempre riservato un malcelato disprezzo (con tutto che la Pallastrada è assai più divertente) e che come argomento in se per sé non mi attrae neanche di striscio e che pure mi sentivo coinvolta...

Ecco, adesso ho una voglia dannata di leggere Elianto...

martedì 20 maggio 2014

Un'avventura epica


CIGNI SELVATICI
di Jung Chang

La storia di tre generazioni di donne nella Cina del 1900 (1920-1980), tra fasciature dei piedi (per essere più aggraziata e appetibile, ma con conseguenze tremende a livello fisico), concubinato, privazioni, soprusi, Signori della Guerra, dominazione giapponese, Comunismo (con tutte le sue implicazioni) e naturalmente Mao e la sua rivoluzione culturale, uno dei temi che più mi hanno sconvolta e amareggiata.
Cigni selvatici, dunque, come le nostre tre eroine, educate alla bellezza, alla docilità, ma in un certo qualmodo sempre pronte a ribellarsi, laddove si renda necessario.
O come De-hong, il nome di una delle protagoniste. Non quello con cui nacque, ma quello che ricevette per amore... De-hong è la mamma dell'autrice, figlia di Yu-fang, la nonna, mentre l'ultima è lei, Jung Chang, la scrittrice... Trattasi insomma di un romanzo autobiografico, edificato su eventi veri, su realtà ancora cocenti, e per questo, in alcune sue parti, persino più aberrante e spaventoso di come dovrebbe essere, perché non racconta solo le vicende di tre donne, ma la Storia della Cina del XIX secolo, e quindi la Storia dell'umanità. Che non è sempre rose è fiori, ma soprattutto spine. Magari avvelenate.
Gli eventi iniziali, quelli che riguardano Yu-fang, la nonna, ci colpiscono, ma ci sembrano remoti, lontani, e anche la vita di De-hong, sebbene sotto molti aspetti ci urti nel profondo, ci appare come filtrata... Quando, però, arriviamo alle Guardie Rosse in cui Jung Chang adolescente si arruola volontariamente, pur senza prendere parte alle azioni brutali che si perpetrano in nome di Mao, è come se il velo di Maia che ci offuscava la vista venisse spostato e cominciamo a sentire ogni ferita sulla nostra pelle, che presto si infetta, toccando i suoi vertici con l'indottrinamento.
Un'avventura epica, ma scorrevole, e sempre più coinvolgente man mano ci si inoltra nei suoi meandri. Una trama che fa male, che brucia, ricca di contraddizioni e insensatezze, in cui l'uomo (ma assai di più la donna) è spesso in balia di cose più grandi di lui, dinanzi alle quali è impotente, e che per giunta sono sempre pronte a ribaltarsi, divenendo addirittura più illogiche e spietate.
Ma non c'è solo il dolore in questa storia: essa contiene anche tanta forza, tanta speranza, tanto amore, e sprazzi di felicità genuina, fatti magari della capacità di accontentarsi. O di assaporare davvero la fortuna che ci sfiora, nei piccoli momenti in cui lo fa.
Da leggere per diletto, per comprendere, e per arricchirsi a livello storico-culturale.

lunedì 19 maggio 2014

Davvero tenero!!!


FAMIGLIA CON I SASSI
 
 
Trattasi di una piccola ed accurata opera, realizzata dal Ragno in uno dei suoi rari momenti di creatività non dedito alla pasticceria, che rappresenta la nostra bislacca famiglia...

A partire da sinistra, c'è mio cognato con la chitarra più grande di lui, mia sorella Chiccachu con fiocco rosa in testa, ai suoi piedi la mia nipotina di pochi mesi, lo stesso Ragno (che si è ritratto più picculo, sebbene sia più alto di me, perché, mi ha spiegato, anagraficamente lo è, almeno rispetto a noi fratelli), la Patapiccula di tre anni con la bambola, mentre, leggermente arretrato e con un dado rosso in testa (a simboleggiare Dado coniglio), il Mio Perfido Marito, e quindi io, con un mostro in mano e un libro in basso (made in Ragno), quindi l'Androide con Zio I-Pad (sic! lui lo chiama così) ed una cuffia per ascoltare la musica.

In seconda fila, da sinistra: la nonna avvolta in uno scialle, Mater con occhiali e foulard, Pater con la barba grigia (non si nota tanto, ha lo stesso colore del sasso che funge da corpo), la Zia (la conchiglia in testa serve ad evocare la sua chioma fluente), il nostro unico Cugino, e dietro lo Zio, con i bottoni neri che si intravedono dietro la cuffia di Androide.

Personalmente trovo la composizione molto simpatica, soprattutto per le nostre peculiarità che emergono sinteticamente e ci caratterizzano. Il Ragno ha rivelato che è per licenza poetica che non ha fatto gli occhiali anche a me, per non farmi sembrare troppo anzianella (che buono!)...

Per il resto, se qualcuno volesse prendere spunto, ha realizzata l'opera (non una sua idea originale ma ispirata ad un soprammobile che fa bella mostra di sé a casa di una sua amica) raccogliendo sassi in spiaggia ed ingegnandosi con quel che trovava in giro... Alla peggio, fabbricando il necessario con le sue zampette industriose...

Per quanto sia malefico, a volte il Ragno è davvero tenero!!!

domenica 18 maggio 2014

Più incalzante


OSAMA GAME 2 – Il Gioco del re
LA FINE?

Naturalmente no, ci sarà almeno un altro seguito, annunciato nell'ultima pagina con un bel “continua”.
Diciamolo pure, dal punto di vista letterario questo romanzo è una schifezza. Non sai che cosa è peggio: se i dialoghi forzati e artificiosi, i sentimenti stucchevoli o eccessivi, in un senso o nell'altro, i salti logici, i buchi narrativi, i personaggi piatti, che cambiano improvvisamente personalità per pseudo motivi poco convincenti, le descrizioni con sempre gli stessi aggettivi ('sto “prezioso” che ricorre di continuo, spesso conferendo alle frasi un tono artefatto)...
Dunque? Perché l'ho comprato?
E' il secondo volume, e questi difetti erano già evidenti nel primo (ed anzi, se vogliamo nel secondo c'è persino un lieve miglioramento – o sono io che, più consapevole, ho abbassato le mie aspettative...). Quindi?
Quindi la verità è che mi piace la trama.
Delle parti splatter farei a meno (alcune sono piuttosto ridicole, ce n'è forse una che ho trovato affascinante, ma viene sminuita dalle reazioni poco credibili dei personaggi), ma mi diverte la situazione di base, e poi sono davvero curiosa di sapere chi sia 'sto Re e come possa infliggere concretamente le punizioni.
Temevo che questo secondo capitolo fosse di mero passaggio, e si limitasse a ripetere, con le debite differenze, la storia del primo, in un'altra classe. Invece, benché l'incipit sia sostanzialmente lo stesso (e ci siano alcuni comportamenti senza senso da parte del protagonista, il solito Nobuaki, spacciato assurdamente come l'autore del romanzo), diviene più incalzante, si procede più in fretta, ed è in una continuity più stretta di quanto credessi. I comportamenti umani, in generale, e a dispetto delle eccessivamente miopi reazioni iniziali e di qualche personaggio votato alla più insensata follia, sono meno deleteri, benché non manchino le esagerazioni in senso contrario.
Inoltre, alla fine, qualche spiegazione viene pure data (assai farraginosa e poco plausibile, ahimè, e, per ora, vicina alla cretinata stratosferica), ma, nonostante deluda più che invogliare ad andare avanti, la frasetta finale, che, non so se volutamente o per errore, la scredita, inducendo invece ad attendere il terzo volume. Insomma, tutto considerato, “Osama Game 2”non è così tremendo (sono generosa, lo so...), e forse può ancora salvarsi in corner.
Di positivo c'è anche che la faccenda scorre rapida, e non richiede particolare attenzione, potendo essere interrotta spesso e risultando piuttosto immediata. Come già avevo precisato in data 27 aprile 2013 riguardo al primo tomo, è quindi perfetta come lettura da treno. Ogni tanto serve pure quella.

sabato 17 maggio 2014

Ho preferito “Le belve”


IL POTERE DEL CANE
di Don Winslow
 
 
Un'allusione al potere del male, con tutte le conseguenze che innesta e che, nella presente vicenda (la quale abbraccia oltre dieci anni), ruota attorno alla violenza e ai cartelli della Droga messicani. Ci sono i buoni e ci sono i cattivi, ma non sempre è facile distinguerli, e a volte le carte si mescolano. Per poi mescolarsi di nuovo, tra doppi giochi, inganni e compromessi. Anche se, la morale finale, è che il Governo (qualsiasi Governo, sia quello Americano o quello Messicano) è il più marcio di tutti.

All'inizio ci vengono presentati vari personaggi: Art Keller, un poliziotto idealista, i fratelli Barrera, eredi di uno dei maggiori imperi della droga, Nora, prostituta di lusso, Callan, più o meno casuale killer irlandese, Padre Juan Parada, prete messicano... Le loro vite si intrecceranno, distaccandosi e ricongiungendosi in più punti, ma restando sempre legate in qualche modo al mondo del narcotraffico.

Si tratta di un buon romanzo, che si legge in fretta e volentieri (nonostante le numerose parentesi narrative, peraltro gradite e atte a farci capire meglio motivazioni, carattere e intenzioni dei personaggi), con uno stile veloce, asciutto, dialoghi sintetici, ma efficaci, tantissima azione, colpi di scena, violenza e sangue, con una spruzzata di volgarità, di sesso, ironia e di denuncia sociale.

Tuttavia, benché la maggior parte delle recensioni che ho letto in merito vada in senso inverso, io ho preferito “Le belve”, per la trama (magari meno incisiva e realistica, ma assai più poetica) e soprattutto a livello stilistico: nei suoi tratti essenziali identico, ma molto, molto più brillante, eccessivo e divertito.

Là ho amato quasi tutti i personaggi, qui, benché non nego che ciascuno sia abilmente costruito ed interessante (con un lato umano sempre ben evidenziato), a piacermi davvero ci sono solo Nora Hayden, Adàn Barrera e Sean Callan, soprattutto per le loro molteplici contraddizioni. Altri, come i due Pesche, sono comunque degni di nota, ma così (volutamente) odiosi e sgradevoli da impedirmi qualunque moto di affetto verso di loro.

Comunque è anche vero che io non sono un'amante del genere...

Peraltro, lo ribadisco, si tratta di un buon libro, spietato, incalzante, e spaventosamente attuale. Solo, forse, io lo avrei scorciato un po': non ci sono parti noiose, e nemmeno superflue, e in questo modo l'impianto narrativo risulta persino più aderente alla realtà, più veritiero, sebbene ciò, secondo me, vada a scapito dell'incisività della trama (che comunque resta solida e avvincente).

E questa volta mi è pure piaciuta la fine.

venerdì 16 maggio 2014

“Ohana” significa famiglia


LILO & STITCH
Walt Disney

(2002)
 

Abbiamo una cornice fantascientifica con un esperimento pericolosissimo e coccoloso, il 626 (per gli amici Stitch, che ci ricorda un koala), creato in laboratorio dagli alieni e destinato alla distruzione, ma in fuga sulla Terra... E poi una bambina hawaiana, Lilo, orfana, ma estremamente dolce e ricca di immaginazione alternativa, che si sente sola, nonostante Nani, la sorella poco più che adolescente, si faccia in quattro per accudirla al meglio...

Questo cartone animato ci racconta della loro improbabile ma meravigliosa amicizia, tra poesia, burocrazia intergalattica, spiagge, Elvis, e splendidi canti hawaiani, astronavi, inseguimenti e assistenti sociali, lezioni di hula, surf e momenti di strepitosa comicità!

Ma anche di tenerezza, perché la morale del film è che “Ohana” significa famiglia, anche se è piccola e disastrata, e nessuno viene mai abbandonato o dimenticato. Neanche se è Stitch e ha un altissimo livello di cattiveria.

Siamo dunque all'insegna dei buoni sentimenti, resi con grazia e simpatia, senza banalità, e impreziositi dalla prospettiva di Lilo, ingenua e sagace ad un tempo, come tutti i bambini, ma con una fantasia scoppiettante e sui generis (perché la sua bambola ha la testa grossa? Perché una cimice ha depositato le uova nelle sue orecchie!), ma ci sono anche altri elementi interessanti: l'amore che vince su tutto, le famiglie a rischio, la solitudine, la poetica del diverso, applicabile tanto al piccolo extraterrestre quanto alla bimba nostrana, che ha difficoltà ad integrarsi con le sue smorfiose amichette... Ma è poi davvero importante?

I personaggi sono adorabili, comprimari compresi, realistici, ben caratterizzati e pieni di sorprese, e così la trama, un po' diversa dal solito Disney, meno stereotipata, meno stucchevole, più emozionante, senza canzoni da musical, ma con una bellissima colonna sonora.

Anche i disegni sono perfetti, benché non ci siano belle e romantiche principesse e i personaggi femminili facciano impressione per le loro gambone elefantiache, coloratissimi e delicati ad un tempo. Prevalgono linee morbide e tondeggianti, tendenti al buffo e gli sfondi esotici acquarellati.

In definitiva, uno dei cartoni Disney che preferisco!

giovedì 15 maggio 2014

Senza respiro


LA MASSERIA DELLE ALLODOLE
di Antonia Arslan

 
Romanzo intensissimo sul genocidio degli armeni, parzialmente autobiografico, che pure, in mezzo a tante sofferenze e crudeltà, riesce ad essere lirico, facendo così risaltare ancora di più, per contrasto, le atrocità cui andremo incontro.

All'inizio lo stile dell'autrice potrà sembrarci lento, ostico, troppo descrittivo, ma andando avanti quest'impressione verrà fugata, ed anzi avremo bisogno di ogni parola per scandire la tragica successione degli eventi. E per riuscire ad accettarli. Poco ci importerà che a livello meramente letterario il romanzo non sia esente da difetti (ma i pregi sono assai maggiori): sarà la vicenda storico-umana a colpirci, a travolgerci, offrendoci un punto di vista inedito su un argomento spinoso e imbrattato di sangue, quanto ingiustamente misconosciuto.

Siamo nel 1914, in Anatolia. Qui incontriamo gli Arslanian, famiglia benestante, colta, da cui ci sentiamo accogliere con calore, avvertendo la forza dei legami familiari. Li rivediamo con gli occhi dell'autrice, attraverso la memoria di narrazioni familiari e ricordi filtrati, dal sapore intimo e dolce, carico di rimpianto. Impariamo a conoscere i protagonisti, ne apprezziamo la personalità, con pregi e difetti. Poi... Poi arriva il maggio 1915, e comincia l'orrore.

Comprendiamo tutte le risonanze del titolo, così poetico, così bello, che fino a poco prima ci faceva pensare solo al luogo in cui avremmo ricevuto i nostri parenti attesi dall'Italia (che però non arriveranno mai), ma di cui adesso apprendiamo l'eco mostruosa e terribile. E' qui, infatti, nella Masseria delle Allodole, che, a seguito di una convocazione di tutti gli uomini in prefettura, il capofamiglia Sempad, subodorando il pericolo, decide sia preferibile stabilirsi per precauzione, ed è qui che lo raggiungono la moglie e la famiglia. Purtroppo un gruppo di soldati se ne accorge e inizia il massacro: tutti i maschi vengono trucidati, inclusi i bambini. A salvarsi solo il piccolo Nubar poiché, casualmente, è vestito da femmina.

Si resta senza respiro, con gli occhi dilatati, ma la parte peggiore deve ancora cominciare. Non è insistita, non è esasperata, il più viene lasciato alla nostra immaginazione, ma quel che c'è è comunque fin troppo, ci sferza, ci frusta, e basta a scuoterci, a farci arrabbiare, soffrire.

Ma a volte anche a commuoverci.

Romanzo stupendo e significativo.

mercoledì 14 maggio 2014

Altamente imperfetto


PER IL POTERE DI GRAYSKULL

di Alessandro “Doc Manhattan” Apreda


E' sempre bello tuffarsi negli anni '80: questo mi ha indotta all'acquisto del libro, un brevissimo saggio (126 pagine, ma scritte giganti, da leggersi in un'orettina giusta giusta d'orologio) interessante sotto molti profili, senza tante pretese e fruibile anche per chi non c'era, simpatico ed evocativo, scritto in modo ironico, non senza una certa inventiva e propensione a deliziosi neologismi, disinvolto e scanzonato, quando è il caso critico... Eppure altamente imperfetto.

Ci sono alcuni passaggi esilaranti, carinissime le parentesi conclusive di ogni capitolo con il tormentone “ti accorgi che sono passati trent'anni perché...”, pagine più nostalgiche e tenerelle, ma... ce ne sono anche di logorroiche, di troppo insistite, di quasi noiose.

Inoltre il punto di vista espresso è esclusivamente (e spesso miopemente) solo maschile (quando si dà dell'idiota a Yu de “L'Incantevole Creamy” , peraltro in modo obliquo, mi è venuta voglia di accendere il camino, a dispetto del caldo e della stagione). E' soprattutto per questo, credo (e forse anche per via della carenza di pagine), che oltre a mancare un sacco di cose – musica, Tv, riviste, giornalini, fumetti – avrei preferito una diversa distribuzione degli spazi. Ad esempio: più film e telefilm (a Indiana Jones e Guerre Stellari, giusto un accenno, mentre per altre pellicole cult, come “Grosso guaio a Chinatown”, neppure una riguzza striminzita, idem per “Visitors” o “SuperVicky”, per citare due serie Tv...) e meno Bmx e pallone (con tutto che ho impiegato un po' a capire che “le penne” sono – presumo – le impennate)...

Ad altre cose io sono semplicemente estranea e non mi ci riconosco: ad esempio a tutta 'sta faccenda dello zaino Invicta: mai piaciuto (non che fosse brutto, ma neanche aveva niente in più del Seven), mai desiderato. Uno l'ho avuto, ma per caso (ed eravamo già negli anni '90) e l'ho sostituito appena ho potuto con quello di Dylan Dog, che mi era assai più confacente. Negli anni 80, per quanto mi riguarda, il vero cult era lo zaino di Poochie, la cagnolina della Mattel con le orecchie rosa e gli occhiali da sole: sarà che ero una donzelletta, ma sarà anche che all'epoca ero alle elementari... Peraltro Apreda non ha molti anni più di me... In quanto poi alla mania di portare lo zaino su una spalla sola, benché io fossi una bamboccina sensibile ed insicura, mi sono sempre fieramente rifiutata di rovinarmi la schiena per assecondare una massa di cretini...

Comunque, il punto è che mi aspettavo di più (soprattutto più nerdaggine, più dettagli, più argomenti... e magari qualche immagine ogni tanto), ma nel complesso l'opera è godibile e non richiede molto. Se siete di quelli che amano gli anni 80, vi divertirà.

P.S.

Ho dato un'occhiata al blog dell'autore: decisamente più carino, ricco ed incisivo del cartaceo...