Di
Carver avevo letto soltanto l’antologia “Cattedrale” e questa
mi sembra sulla stessa lunghezza d’onda: racconti brevi, asciutti,
scarnificati, che narrano la normalità e le infelicità che si
nascondono dentro di essa.
Che
ti lasciano lì, sul momento, basito, inerme, ma poi, quando li
ripercorri nella tua mente, ti accorgi che ti hanno lasciato
qualcosa. Che non sai che cos’è, ma ha un sapore amaro, ma pure
autentico e, se tutto va bene, consolatorio. Uno spiraglio di luce.
Frammista a polvere, ma sempre luce.
Non
c’è ironia, in queste righe. Solo distanze siderali, cose non
dette e altre che preferiresti non aver sentito, perché fanno male.
Ti
spiazzano, ti alienano.
Ma
ti ammaliano, anche, restituendoti qualcosa che immaginavi solo tuo,
ma che invece è di tutti e la condivisione rende prezioso.
E
a volte ti sorprendi che non accada altro, a volte rimani
pietrificato perché non ti immaginavi questa deflagrazione
improvvisa, con tutto quel sangue. Si fosse trattato di un altro
autore… allora magari sì, ci saresti potuto arrivare. Ma da Carver
ti attendevi toni più posati, situazioni più ordinarie, più
banali…
Invece…
Non
c’è nulla di scontato, nemmeno l’ovvio, perché non sai mai da
che parte il vento decide di soffiare.
Diciassette
racconti, diciassette finestre sul mondo e sui sentimenti, di solito
deteriorati, di persone che non ce la fanno più, per una ragione o
per l’altra.
Da
un’idea di Alan Moore (il personaggio compare inizialmente in
“Swamp Thing”), il personaggio di John Constantine, mago potente
quanto astuto, cinico, cialtrone e stropicciato, fa di tutto per
rendersi odioso, ma, personalmente, una pizza con lui me la farei
volentieri… Anche se avrei l’ansia di restarci secca (non si sa
mai)! Con tutto che, lo riconosco, le teste di beep mi sono sempre
state simpatiche!
Molti
autori si sono susseguiti ad interpretarlo (e il mio preferito è
ovviamente Garth Ennis), creando all’interno della saga vere e
proprie mini serie dotate di vita propria, filoni che privilegiano un
elemento piuttosto che un altro, creando nuovi contesti e nuovi
nemici o personaggi di contorno, così, adesso che c’è stato un
rilancio per accaparrarsi il pubblico dei più giovani passando da
“Hellblazer” a “Constantine”, non ho sentito più di tanto lo
stacco. Per ora.
Se
mi piacciono questi comics è perché sono adulti, scomodi, ma non
senza cuore, e perché mi piace lui, John (sebbene non quanto ami
Sandman o Jesse Custer), ma soprattutto perché mi solletica
l’esoterismo con le sue seduzioni. Adoro i riferimenti continui a
demoni e dei dimenticati, a impiastri alchemici o a temibili Grimori,
adoro l’horror, l’unpolitically correct e gli impermeabili
intrisi di pioggia e fumo di sigarette (per quanto non fumi)… E mi
piace che il protagonista riesca a rinnovarsi di continuo, cambiando,
ma rimanendo il medesimo. A volte più tormentato, a volte più
folle, o spiritoso, ma sempre lui, e sempre bastian contrario, con
una bestemmia e una battuta perennemente pronti sulla punta della
lingua (tra le altre amenità, abbiamo visto Constantine anche in
“Sandman”, “The Books of Magic” e “Justice League Dark”).
Le
trame, spesso, sono sorprendenti: non sempre si riesce a prevedere
l’escamotage con cui il nostro antieroe salverà la pelle, o
risolverà il caos in corso… non sempre lo risolverà, e il prezzo
da pagare potrà essere elevato!
A
volte sangue e budella abbondano, talaltra si gioca più
sull’atmosfera o sulle caratteristiche del personaggio…
irrimediabilmente dannato, un po’ perché lo è e non può farci
nulla, un po’ perché così è più figo e gli piace lamentarsi…
Una
serie sporca, che spero non si patini troppo, adesso, ma che è
sempre stata variegata e soggetta ad alti e bassi.
Probabilmente
ho fatto il pieno: ne ho letti troppi di seguito, di libri di De
Luca, troppo simili fra loro, labili, indefiniti, esistenzialisti, e
non riesco più ad apprezzarli. Colpa mia, come al solito sono
ingorda e brucio le cose facendone indigestione.
E
sì che all’inizio mi esaltava questa immersione totale nella
memoria composta di malinconia, di pesantezza, di atmosfera e
distanza… Questa rincorsa a ciò che non è più, che non è
neanche mai stato, forse, e che al contempo sarà per sempre,
cristallizzato nel ricordo, vivo e mutevole, soggetto a
reinterpretazioni e, persino, a scoperte ed agnizioni.
Prima
non sentivo la mancanza di fatti o di azione, mi lasciavo rapire,
trasportare e mi rilassavo, pur attraverso la nostalgia. Così si
dovrebbero leggere i romanzi/racconti di De Luca, con questo spirito,
aperto e riflessivo, godendo della bellezza della prosa, della
composizione delle frasi, e delle verità semplici e sconcertanti in
esse contenute, della scelta accurata delle parole, della precisione
con cui vengono selezionate e armonizzate, del gusto dolente che si
prova ad inseguire quel che non si trova…
La
felicità stilistica rimane, naturalmente, ma sono i contenuti, che,
se inizialmente mi sembravano intimi e preziosi, oggi mi appaiono
scontati, ovvi. Estranei, addirittura.
Li
percepisco come un crogiolarsi forzato in un’autocommiserazione
autoindotta.
Adesso
provo fastidio, noia, persino.
La
perfezione della prosa, punteggiata di lessico colto come di
locuzioni gergali, di per sé non mi basta, ed anzi mi sento
soffocare.
Per
quanto, cercando di essere obiettiva e distaccata, devo affermare che
questo, in particolare, sia uno dei romanzi/racconti di De Luca più
pieni e profondi, uno di quelli con più carne attorno all’osso.
Non
solo è scritto bene, ma risulta pregevole altresì nella sua
costruzione, nel suo alternare presente e passato, nelle sue
conclusioni, poco consolatorie, ma per questo ancora più intense.
Eppure
non mi va di leggerne altri, ormai, quindi… Quindi cercherò di
aspettare almeno un annetto prima di comprarne un altro ;).
O,
come dico io, quattro sgualdrine e mezzo cervello!
Naturalmente
alludo alla serie HBO (1998-2004) creata da Darren Star, con
protagoniste Carrie, Samantha, Charlotte e Miranda.
Solo
che, più che una recensione, questo è uno sproloquio, dettato dal
mio sconcerto per il successo di un prodotto tanto misogino
(misogino, sì) e imbarazzante, che, se pure ormai è un po’
vecchiotto, continua a spopolare. Specie tra le ragazzine
lobotomizzate.
Intendiamoci,
a guardarne qualche episodio sparso è pure piacevole, e lì per lì
le protagoniste possono persino apparire toste e anticonvenzionali…
ma provate a spararvi le sei stagioni di fila (i film sono tanto
insulsi che non vale nemmeno la pena di considerarli)…
E’ tutto il contrario!
Va
beh, tralasciamo la circostanza che su di me le carrellate di scarpe,
borse e vestiti non esercitano alcun fascino, ed anzi al massimo mi
inducono a sbadigliare… Con tutto che come accidenti si fa a farsi
dare consigli di moda da una tizia che gira per New York con un tutù
rosa? My God!
La
nota più dolente, peraltro, sono proprio le ragazze: fanno le dure,
ma sono sempre lì a frignare dietro un uomo, come se non potessero
vivere senza (alludo in particolare a quella scimunita di Carrie e al
suo Mister Big, che, va bene, alla fine la sposa, ma solo dopo anni
di prostrante zerbinaggio! Dov’è finita la tanto propugnata
indipendenza femminile? E l’emancipazione? E la dignità? Bah!).
Peraltro
le fighette passano da un estremo all’altro… Come possono ste
operatrici di rettilineo essere così superficiali a giudicare i
masculi che non le interessano? (Non ce l’ho con Samantha. Samantha
è l’unica che non mi dispiace: almeno dice chiaro quello che
vuole, senza pregiudizi, e ci risparmia le arie da gatta morta.) Tra
i motivi per cui gli uomini vengono piantati (malamente) ci sono i
più stupidi, i più gretti mai sentiti dai tempi di Ally McBeal… E
magari sul momento possono pure risultare divertenti, ma danno un
messaggio veramente orribile e di sicuro non ci portano verso una
discussione matura, rispettosa e produttiva con l’altro sesso
(viene davvero voglia di dire: “prendi una donna e trattala male”,
solo che, grazie a dio, non ci sono mica solo vacche così!)… Per
tacere della puntata in cui due delle quattro oche si vantano per il
numero di aborti effettuati. Io non sono contraria, ci mancherebbe…
E posso anche condividere l’intento sotteso, di non farne una
malattia o un tabù… Ma… e gli anticoncezionali? Non ce li hanno
a New York? E bisogna per forza riderne, poi?
Infine,
ragioniamo… Le protagoniste sono rispettivamente una scrittrice, un
avvocato, una gallerista e un’imprenditrice. In teoria, quindi,
donne con una cultura, con degli studi alle spalle... Possibile che
parlino solo di scarpe e peni? Se non sbaglio nelle sei stagioni
vengono menzionati solo due libri: uno scritto da Carrie e uno di un
suo cicisbeo… E anche le altre forme di cultura (teatro, cinema,
balletto, arte…) vengono completamente ignorati, a meno che non
siano funzionali ad una bottarella…
E
tante ragazze hanno innalzato Carrie ad una specie di idolo da
imitare: ma dai!!!
Indi,
tutto da buttare?
No.
L’idea
di base è interessante, inizialmente davvero controcorrente e
originale (prima che si perdesse nel mare della melensaggine); il
romanzo di Candance Bushnell da cui la serie è stata ispirata (e che
con la stessa c’entra di striscio, specie in quanto alle
protagoniste) non è brutto (anche se ormai l’ho quasi
dimenticato); inoltre, apprezzo l’aria newyorkese che si respira,
mentre la sigla, con la scena dell’autobus… ecco, quella è un
gioiellino di sagace ironia!
E
comunque ammetto che le puntate, prese singolarmente, possono
regalare sorrisi, riflessioni critico-sociali e qualche emozione.
Nella prima stagione, in particolare, sono incisive e stimolanti.
Le
mie aspettative erano basse: ero convinta fosse una triste e
dilettantesca imitazione di Philippa Gregory… Invece, per quanto
sia un drammone storico che bazzica attorno a Maria Stuarda, con
tanto di suggestioni magico-romantiche in pieno stile Gregory,
Elizabeth Loupas con l’autrice de “L’altra donna del Re” ha
davvero poco da spartire, raggiungendo invece una sua propria ed
originale dimensione.
Intanto
la vera protagonista del suo romanzo non è una Regina realmente
esistita, ma un personaggio inventato, la determinata Rinette Leslie
di Granmuir, dedita alla floromanzia (ma senza esagerare), così come
frutto di fantasia sono la maggior parte dei coprotagonisti, rendendo
in tal modo la trama più avvincente e meno prevedibile, costellata
da continui colpi di scena ed eventi significativi…
Anche
lo stile è differente, pieno di profumi e colori, ma decisamente più
vivace rispetto alla Gregory, più irruento, incalzante,
particolareggiato, ma meno teso a rimarcare concetti e situazioni: le
scene scorrono rapide, con continui cliffhanger.
Le
vicende narrate sono avventurose, imprevedibili (omicidi, attentati,
esecuzioni, furti, violenze), e gli stessi fatti che fungono da
contorno non risultano troppo vincolanti, per giunta non sono nemmeno
inflazionati: della Stuarda, ad esempio, si vive la giovinezza e non
la prigionia e la morte, già affrontata da ogni prospettiva in film
e libri.
La
stessa descrizione della sovrana è affascinante: non la classica
figura di donna idealizzata e forte, quanto una capricciosa
fanciulletta lunatica e prepotente, con i suoi umori e le sue bizze,
pur capace di grande seduzione e amabilità.
Non
manca nemmeno la parentesi amorosa, ma è abbastanza dimessa e
altalenante nel suo sviluppo da non stancare e né risultare
irritante.
Anche
la protagonista ci piace. Va bene, Rinette è la tipica eroina che
alterna debolezza e determinazione, che cade e si risolleva di
continuo, però seguiamo volentieri le sue peripezie, partecipando
delle sue ansie e delle sue emozioni.
Una
lettura piacevole, femminile, avvolta in un’atmosfera incantata a
base di broccati e di feste, ma con qualche momento di brutalità,
dolore e intimismo.
Discontinua,
ma complessivamente strepitosa, saga fantascientifica con Schwarzy
(killer cyborg proveniente dal futuro) in tutte le salse (giovane,
vecchio, cattivo, buono, nudo, vestito, empatico, glaciale…) e
sempre più complessi salti temporali, che per ora decido di passare
in rassegna in modo succinto (e senza riassunti), alla velocità
della luce, con l’intesa che, magari, in futuro, dedicherò ai
singoli film lo spazio che meritano…
Dunque,
cominciamo:
TERMINATOR
(1984, James Cameron)
Must
anni 80, assolutamente da vedere: ritmo, adrenalina, tensione e
crudeltà (specie per quanto riguarda il finale…), in cui
Schwarzy/T-800 è cattivissimo ed implacabile, tanto che, ai tempi
(ero alle Elementari), per quanto mi ostinassi a voler vedere e
rivedere il film (troppo bello!), pativo da morire! La pellicola,
infatti, mi appariva desolante, sporca, e tutt’altro che
consolatoria. Volevo amare Schwarzy (che già era uno dei miei eroi),
ma dovevo odiarlo per forza, mentre il bel tenebroso, Kyle Reese
(Michael Biehn), mi appariva così ingiustamente svantaggiato da
farmi pena, idem la fragile (ancora) Sarah Connor, una giovanissima
Linda Hamilton…
La
trama, però, era talmente avvincente, originale e stimolante, che
resistevo! Mi appariva come una ventata d’aria fresca, con la
giusta dose di azione, inseguimenti, epicità, claustrofobia, ma
anche innovazione…
TERMINATOR
2 – Il giorno del Giudizio (1991, James Cameron)
Bellissimo,
il mio preferito! Perché qui si mette tutto a posto: Schwarzy è
buono e pure simpatico, Sarah Connor diventa ca**utissima, e
finalmente conosciamo suo figlio John, adolescente problematico! Per
giunta arriva il T-1000, un nuovo cyborg killer, ma più evoluto, più
spietato, e odiabile fino in fondo, senza remore! E poi le battute!
Un sacco!!! Divertenti, mitiche, ironiche! Praticamente da impararsi
mezzo film a memoria! Non deludono nemmeno la trama, perfetto seguito
del capostipite, o le altre caratteristiche dell’originale (azione,
emozioni, ansia), che anzi, si rinnovano e migliorano! Capolavoro!
TERMINATOR
3 – Le macchine ribelli (2003, Jonathan Mostow)
E
qui ci perdiamo… La storia prosegue, il T-1000 viene sostituito da
un cyborg donna, una TX, che non fa paura, ma irrita un po’,
l’azione non manca, ma… manca l’anima! Il film sembra un promo,
un antefatto… E poi? E poi the end.
Una
mera operazione commerciale: tristezza!
TERMINATOR
SALVATION (2009, McG)
Qui
Schwarzy non c’è, ma troviamo Christian Bale nei panni di John
Connor adulto e, finalmente, diamo un po’ più di una fugace
sbirciata a quel che accade dopo il tanto sospirato giorno del
giudizio… Se devo essere sincera non mi ricordo molto del film, se
non l’atmosfera opprimente (peraltro in linea con la saga). Però
rammento che l’avevo apprezzato… Sarà stato per la facciata
presa con il 3, ma l’avevo trovato suggestivo, persino a livello
concettuale. Purtroppo, però, i fasti del 2 sono cosa remota, specie
in quanto ad emozioni e spasso!
TERMINATOR
GENISYS (2015, Alan Taylor)
Torna
Schwarzy buono e anzianello (ma dignitoso, ironico, e ben
invecchiato, che riesce pure ad aggiungere spessore al T-800), torna
Schwarzy cattivo (CGI), e al posto di Linda Hamilton abbiamo una
ciccioncellissima Emilia Clarke (grazie a dio con le sopracciglia
scure), e… torna pure Kyle Reese (Jai Courtney, meno tenebroso e
più palestrato). Insomma, un po’ sequel, un po’ reboot, si fa un
gran casino con avanti e indietro nel tempo, paradossi, riscritture e
cancellazioni varie… Ma il film non è malaccio, si guarda
volentieri, nonostante qualche calo di tensione, un’eccessiva
prevedibilità e un poquito di straniante confusione… Perché,
ammettiamolo, ci sono un bel po’ di trovate carine! Plausibilmente,
tuttavia, questo non è ancora il capitolo finale!
Guida
alle saghe dell’horror cinematografico moderno
Ossia
da quelle da “La notte dei morti viventi” di Romero (1968), in
avanti…
E
dunque…
A
parte che sovente il mio giudizio e quello degli autori va in
direzioni diverse (ad esempio, mi spiace, ma per me “Cabin fever”
è un filmaccio noioso e senza sugo, che non spaventa né diverte, ma
fa solo venire sonno, mentre, viceversa, adoro “Drag me to hell”),
a parte che a tratti mi verrebbe voglia di metter dei Critters nel
letto degli autori ;), a parte i numerosi (ma non fastidiosi) errori
di battitura… Beh, l’opera è davvero carina!
Per
ogni saga horror (e anche qualcuna in più… che c’entra
Sharknado, ad esempio?) si fa una breve introduzione per inquadrare
il fenomeno e contestualizzarlo e poi, per ciascun film, abbiamo un
riassunto/recensione critica, che magari mette altresì in luce
curiosità e plaisanteries… Ad ogni pellicola si assegnano da uno
(robaccia di serie Z) a cinque teschi (capolavoro imprescindibile),
tanto per rendere più immediate le valutazioni.
Inoltre
gli autori dimostrano di conoscere abbastanza bene la materia, non
sono né troppo sintetici, né prolissi, ma soprattutto hanno un
linguaggio effervescente, vivace, simpatico, nerd q.b., ma pure
sufficientemente tecnico. E se anche abbondano le parolacce, per una
volta non danno fastidio, perché sono collocate nei punti giusti,
per cui, se mai, fanno colore!
A
livello contenutistico non mi pare manchi niente, tutt’al più,
come già evidenziato, c’è qualche saga extra (che ben venga!)…
E,
chissà, magari è possibile scoprire trashatine dimenticate o amene
facezie…
La
Guida, tra l’altro, è a buon prezzo (15 € per circa 250 pagine),
la quarta di copertina deliziosa e, sia pure in bianco e nero e usate
come sfondo, il libro contiene parecchie immagini e vanta addirittura
una grafica chiara e caratteri di dimensioni decenti.
Certo,
si sarebbe potuto dotare ogni film di schedina tecnica (regista,
titolo originale e anno di produzione sono precisati, ma sarebbe
stata apprezzata qualche nozione in più sul cast, sceneggiatori e
produttori, anche se, ammetto, gli elementi più importanti vengono
comunque rimarcati nel “riassunto”).
Dovendo
assegnare da uno a cinque teschi… Direi quattro, ben meritati!
No,
perché questo è un fenomeno strano, che mi sconcerta e sconvolge (e
che, se vogliamo, mi fa pure ridacchiare)…
Otta
sono io, e sono la sorella maggiore.
Ho
due fratelli e una sorella più piccoli – di cui uno molto più
piccolo – ma ognuno dotato di nome proprio (che stravaganti che
siamo, eh?)
Ciò
nondimeno capita che Mater e Pater si riferiscano a mia sorella
Chicca come a Otta Piccola e al Droide (Androide, o “Andea-Blé”,
come ho insegnato a dire alla mia nipotina più cucciola) e al Ragno
rispettivamente come a Otto e Otto Piccolo. Anche se ultimamente
spesso il Ragno viene promosso a “Otto” e basta.
Ebbene,
è inquietante, mica sono miei cloni!
Tuttavia…
fin qui, forse, è ancora normale.
Ma
recentemente avviene di peggio, perché il Mio Perfido Marito ha
preso a chiamare Otto il nostro coniglietto Paco! E solo mentre lo
sgrida!
“Otto!!!;
Otto, comportati bene!; Otto qui non si rosicchia!”, lo apostrofa.
Eccheccavolo!
Per
giunta, non lo fa in mia presenza, ma, ad esempio, mentre trafficano
insieme in un'altra stanza (qualunque cosa combini il MPM, il nostro
coinquilino peloso gli fa da scrupoloso assistente). Così ora Paco
non è sicuro di non chiamarsi anche Otto… Se glielo dici, risponde
(nel senso che ti guarda interrogativo), oppure arriva di corsa.
Solo
che talvolta rispondo anche io…
Fortunatamente
la mia presunzione e il mio egocentrismo mi salvano da una crisi di
identità, però, insomma!
D’altro
canto, accadono anche cose più gravi… Ad esempio, ho sorpreso mon
amour sussurrare a Paco che io non volevo un coniglietto… Volevo un
chupacabra (ossia un mostriciattolo immaginario, che succhia il
sangue alle bestiole, specie le capre)!
Raccontini
per bimbi, fantasiosi, soavi, immaginifici, che hanno in comune il
protagonista, l’inventore di sogni del titolo, un ragazzino di
dieci anni che ha l’abitudine di perdersi nei suoi stessi pensieri,
creando realtà alternative, avventure, e piccole meraviglie con
suggestioni fantasy o horror, nonché la sua famiglia, composta da
mamma, papà, sorellina e gatto.
Alcuni
brani sono davvero piacevoli, con intuizioni felici e una certa
delicatezza di fondo, che, nonostante tutto, non sa di buonismo, ma
solo di umana benevolenza (ad esempio il racconto relativo al
bulletto della scuola, per certi versi estremamente realistico, per
altri di una sensibilità fuori dal comune), altri, invece, (ad
esempio quello della bambola cattiva…), mi sanno di già sentito,
di un po’ pedante, sono poco incisivi, appesantiti da troppe
riflessioni, e ho faticato a concluderli, benché siano brevi, ben
scritti e scorrevoli.
Il
fatto è che ci sono punti in cui si gode della genuinità e del
candore del mondo visto con gli occhi di un ragazzino sognatore,
avvertendone la poesia e l’incanto, e tanto basta; ma ce ne sono
altri in cui si percepiscono il desiderio di stupire a tutti i costi,
l’artificiosità del contesto, la scarsa originalità della trama,
una non sufficiente caratterizzazione del protagonista, e … beh, si
rimpiange Neil Gaiman.
O
anche altre opere di McEwan (Espiazione, La ballata di Adam Henry…),
più adulte, complesse, ma anche più originali e autentiche.
In
generale, però, questo romanzo a racconti è gradevole, grazioso, la
lettura si affronta con piacere.
Il
segreto, credo, sta nell'accettare semplicemente quanto ci viene
offerto, senza soffermarcisi troppo, senza pretendere nulla.
Che
cosa cela l’animo di un gatto? Può un micio avere un padrone? E
una ragazza essere come un gatto? Ed è una colpa, questa? O la colpa
è nostra? Che cos’è l’amore?
Più
o meno il paradigma del fumetto è questo, solo che i quesiti non ci
vengono posti in maniera esplicita, quanto piuttosto “declinati”…
Seguiamo allora le vicissitudini sentimentali del protagonista, un
ragazzo italiano, un disegnatore, che si trova a Riga, città che ama
e che anche noi impariamo a conoscere, tra un fiocco di neve e una
gita al parco… Qui il giovane si innamora di Inese, una bellissima
flautista, che lo ricambia, dice, ma che intanto si sollazza con
quanti le capitano a tiro, senza nemmeno darsi la pena di negare più
di tanto…
Che
fare? Si può davvero fare qualcosa?
I
disegni sono magnifici, forse appena un poco convenzionali, ma
morbidi, dettagliati, con i tratteggi a matita ben visibili, che ne
accrescono la dolcezza e l’atmosfera… I dialoghi no, non hanno
nulla di straordinario, sono anzi improntati alla banalità, ma vanno
bene ugualmente, e forse conferiscono maggior veridicità alla trama…
Trama,
però, che sembra fatta di inconsistenze, di suggestioni, più che di
fatti. Fatti che quando ci sono si dimostrano inconcludenti, quasi
scontati. Personaggi piatti (volutamente?), che non ci conquistano.
Però…
Però
spesso la vita è così…
Però
talvolta noi possiamo essere così…
Se
ci accontentiamo del paradigma su cui questo volume si basa, e che
sviluppa e percorre… allora possiamo lasciarci affascinare e
soprattutto tentare di rispondere agli interrogativi che suscita.
Film
neorealista ambientato in Liguria (in località inventate, eppure
riconoscibili in scorci di Finale Ligure, Spotorno, Noli e
Varigotti), che ha destato il mio interesse per motivi legati a
costume e società, ma che ha finito per sedurmi più che altro
grazie alla profondità e sagacia insite nella trama.
Iniziamo
con questa bella signora milanese, Anna Maria Montorsi (Martine
Carol), che si ricongiunge alla figlioletta Caterina, a scuola dalle
suore, e va in vacanza con lei al mare… Alloggia in uno degli hotel
più esclusivi, desta la curiosità degli altri villeggianti, ricchi
e snob, che la riconoscono subito come una donna di classe, e ammalia
il Sindaco (Raf Vallone) con la sua riservata femminilità…
Solo
che lei è una prostituta e quando un cliente, pure lui in vacanza al
mare, la riconoscerà, la poveretta e la sua bambina verranno
ghettizzate da tutti, in particolare dai supposti nuovi amici
conosciuti in hotel…
Ci
aspettiamo che il Principe Azzurro, alias il bel Sindaco, la tragga
di impaccio?
Allora
resteremo delusi… Ma anche no, perché accadrà qualcosa di meglio,
di più spiazzante e arguto, ironico, preparato con cura, ma non
scontato, che ci indurrà al sorriso, solleticherà riflessioni,
provocando al contempo, in noi, una sensazione di calore e dolcezza…
Stucchevole?
No.
Lo zucchero c’è, ma non nausea, anzi, favorendo nuove dicotomie,
incrementa il quantitativo di fiele.
Ottimo
il cast (specie lei, Martine Carole, dalla grazia spontanea, inquieta
e sofferente, ma ben caratterizzati pure i personaggi di contorno),
valida la regia, e ancora di più avvincente e significativa la
sceneggiatura, con un buon ritmo, per pause e accelerazioni, e un
perfetto equilibrio di sentimenti e stati d’animo, melodramma e
critica sociale.
Senza
dubbio, con il mutare dei tempi, il film non suscita più scandalo,
ciò nondimeno il messaggio contro l’ipocrisia borghese e la
piccineria umana resta intatto, e piace come si affrontano argomenti
spinosi senza esagerare, con moderazione, delicatezza ed eleganza,
facendo leva sulla sensibilità e lo spirito di contraddizione.
L’argomento
è la caccia umana, quella, in pratica, in cui le persone vengono
predate da altre persone… E già questo mi basta per sentire il
brivido dell’attrazione.
In
più, qui, la faccenda può essere peggiore e resa ancora più
grottesca e alienante da vari pittoreschi elementi: ad esempio, se
sei una preda vieni dotato di sgargiante costume da bestia,
realizzato ad arte, nei minimi dettagli, così che tu appaia qualcosa
di diverso e persino più tragico e dolente: riconoscibile come uomo
o donna, ma altresì identificabile come vittima predestinata, dulcis
in fundo, intenzionalmente disumanizzato.
Poi
ci sono “le donne felino”, cattive, feroci, dotate di artigli,
ma non più di coscienza, eppure umane anch’esse… Solo alterate a
livello genetico per spersonalizzarle e renderle belluine. E questo è
solo un altro esempio, per tacere di come vengono utilizzate le prede
dopo la cattura...
Sul
piano dell’inventiva e del sadismo il romanzo, scritto attorno al
1950, decisamente in anticipo sui tempi, eccelle e assurge a classico
immortale: abbastanza soft per i canoni odierni sotto il profilo
della cruda violenza, ma sempre tremendo e straniante da un punto di
vista squisitamente concettuale, che ti urta e sale su per la
schiena.
Le
caratteristiche rilevanti, peraltro, non sono solo di matrice horror,
ma pure fantascientifica, infatti abbiamo salti temporali, universi
quantistici (se vogliamo) e addirittura un po’ di fantastoria, nel
senso che il protagonista, Alan Querdilion (che cognome spaziale!) si
ritrova in una sorta di universo parallelo, centodue anni avanti al
suo, in cui i Nazisti hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale e
dominano l’Europa...
La
prosa di Sarban presenta un frasario ricercato, capace di rendere con
precisione ogni azione, pensiero, fremito, ma scorrevole e non
invadente.
Ho
trovato un po’ troppo lunga la premessa, ma in termini
trascurabili, che infatti non precludono nulla, mentre l’atmosfera
e la descrizione degli stati emotivi sono notevoli e piacevolmente
accurati.
L’ho
comprato diversi anni fa e tutt’ora è una delle mie opere
predilette e più consumate!
Intanto
perché non sono molti i dizionari simili, con questa impostazione
vasta e completa – e se ne sentiva proprio il bisogno –, legata
al personaggio, appunto, più che alla fonte da cui proviene (se dico
“Shannara” tutti capiscono a che mi riferisco, ma se pronuncio il
nome di Allanon non è necessariamente facile risalire a Terry
Brooks, salvo, ormai, appiccicarsi ad Internet), in secondo luogo
perché è fatto abbastanza bene, sia in quanto a grafica (in
particolare, ringrazio perché i caratteri sono di quelli da perderci
la vista) e illustrazioni (non poche), sia in quanto a contenuti.
Okay,
qualche errorino c’è, qualche assenzina pure, ma è il complesso a
entusiasmarti: la possibilità di spaziare liberamente fra horror,
fantascienza e fantasy, tra Serie Tv, libri (fumetti come
letteratura) e film, attraverso i loro capisaldi e addentrandoti
direttamente nel cuore delle storie, senza noiosi preamboli o inutili
ciance…
Un
dizionario, quindi, immediato, di facile consultazione, ma anche
un’avventura meravigliosa e confortante in cui buttarsi a braccia
aperte, che è stupendo leggere d’un fiato per scoprire nuovi
mondi, ma anche per bazzicare quelli che già ami, divertendoti a
fare la cuenta dei presenti.
Le
singole voci, inoltre, lungi dall’essere scarne e lapidarie, hanno
il pregio di offrirti un numero sufficiente di informazioni per
capire se, dati i tuoi gusti, vale la pena per te di approfondire la
conoscenza dell’eventuale personaggio “nuovo” (ad esempio
procacciandoti il romanzo che ne narra le gesta) oppure no,
oltretutto risultando già godibili nella loro struttura di base,
aiutandoti a colmare lacune, ma anche regalandoti pillole di
emozioni.
Variegato
ed appassionante, è il paradiso di ogni nerd!
Io
l’avevo scovato ai tempi dell’Università, appena pubblicato, per
cui immagino che ora sia un bel po’ da aggiornare… Tuttavia, le
opere più importanti ci sono e, se vogliamo, ora il volume detiene
pure un discreto fascino vintage (senza contare che, almeno per
quanto mi riguarda, mi aveva altresì illuminata su tanti ambiti,
magari di matrice “classica”, che ignoravo e su cui da tempo
bramavo una guida)…
Miniserie
televisiva in otto puntate, che io ho adorato e che il MPM ha patito
assai (la morbosità lo uccide e i corpi anoressici spogliati pure)…
Va
bene, il motivo principale per cui l’ho gradita è che mi piace
assistere ai balletti, ma non ci si aspettino solo fiori, tutù e
musica classica: se c’è una cosa che “Flesh and Bone”, alias
“Carne e Ossa”, insegna è che le unghie si staccano, i piedi si
rompono, che il mondo della danza è frequentato quasi esclusivamente
da vipere invidiose ansiose di pugnalarti alle spalle, che
competizione e ambizione sono tutto, e che se vuoi brillare non ti
basta il talento, ma devi scendere a compromessi e, se le circostanze
lo richiedono, saperti comportare, ossia venderti l’anima e il
corpo…
Eppure
non basta ancora, perché qui non ci facciamo davvero mancare niente:
dall’incesto in stile Lannister (ma più malato) alla sclerosi
multipla, con tanto di omicidio insensato, tratta delle bianche e
sognatore pazzo nel sottoscala (che, per inciso, scrive da Dio);
dall’insegnante/direttore artistico (un eccezionale Ben Daniels,)
egocentrico, isterico e involontariamente umoristico (se non ti
terrorizza), al mafioso russo amante dell’arte che gestisce un
locale di strip-tease…
Insomma,
non proprio una serie per signorine, ma un coacervo di drammaticità,
sudore e sangue dalle molteplici sfumature, per giunta ulteriormente
esasperato dalla laconica protagonista, Claire Robbins (Sarah Hay),
che, se per certi versi ci appare positiva, innocente e
incontaminata, per altri ha dei disturbi ai massimi livelli e un bel
passato difficile alle spalle. Oltre alla danza, il suo unico
conforto sono i libri, con cui va a dormire, letteralmente,
ammucchiati sopra di lei (fortuna che non sono tantissimi) e
l’autolesionismo (una tantum)… Ma non per questo è una ragazza
debole, o meglio, la è, ma è anche molto di più.
Nel
complesso l’opera è disturbante, crudele, ti mette dinnanzi al
prezzo della trascendenza, alla sua ineguagliabile ebrezza, e ti
canta la sua effimera sostanza, nonché l’atroce declino cui vai
incontro quando inevitabilmente la perdi (consapevolezza, oltretutto,
che ti ossessiona sin dalla tua ascesa, che tuttavia potrebbe non
iniziare mai)… E per gli stessi ambivalenti motivi è pregna di
fascino e bellezza, che non potranno lasciare indifferenti.
Disponibile
on demand su TimVision, ringrazio Claudia Piccola per avermela
consigliata!
Sicuramente
il meno interessante fra i tre romanzi della saga (senza considerare
il prequel che ancora non ho letto), sia sotto il profilo
dell’evoluzione dei personaggi, sia dal punto di vista della trama,
che dell’azione pura: si procede, infatti, in modo quasi
didascalico, sovente arrancando, a scapito del pathos e
dell’emozione, e pure dell’adrenalina, che, ahimè, scarseggia,
laddove imperano gli spiegoni (peraltro a base di fuffa), accentuando
i difetti stilistici dell’autore. Persino la morte di due dei
protagonisti non mi ha scossa, infliggendomi appena una punta di
remoto dispiacere… Né si ottengono tutte le risposte che si
vorrebbero, subendo, anzi, nuovi ingarbugliamenti, a volte stancanti
e, ormai, persino prevedibili.
Non
si può vantare né la geniale originalità del primo tomo, né la
curiosità comunque instillata dal secondo con i suoi approfondimenti
psicologici...
Eppure
il libro non è da disprezzare, soprattutto per via del finale, che
in qualche modo lo riscatta e ti sconvolge.
Va
bene, è scontato, ma al contempo doveva essere quello, anche per
rendere coerenti i ripetuti cambi di direzione cui abbiamo assistito…
Forse, in effetti, più che scontato, è semplicemente logico.
Stupenda, tra l’altro, alla luce di esso, la continua inversione di
ruoli tra Brenda e Teresa, che in ultimo ci lascerà agghiacciati,
riempiendoci di rammarico e di malinconia.
Questo
solo sentimento, abbondante di ramificazioni e parentesi etiche, vale
da solo l’acquisto del volume, che trova così una sua
ridefinizione, un suo valore esistenziale ed emozionale.
L’epilogo,
inoltre, è valido, non solo come conclusione del terzo tomo, ma
anche per l’intera saga, che, nel complesso, giudico interessante e
soddisfacente.
Poco
importa che l’opera, nel complesso, descriva una sorta di parabola
discendente in quanto a ispirazione: la fine mette tutto a posto, e
ci infonde il desiderio di leggere anche il prequel… Nella
speranza, soprattutto, di conoscere qualcosa di più, perché non si
può negare che, a livello distopico, questi romanzi siano
stimolanti.
L’embrione
è dato da un racconto di Neil Gaiman che avevo già letto, in non so
più che antologia, su questo ragazzino, Nobody, che abita in un
cimitero… Dolcissimo e dark, un po’ alla Tim Burton, circondato
da brave persone, peculiari e… decedute.
Poi
il racconto è diventato un romanzo, un romanzo fatto di storie
indipendenti, ma che si richiamano l’un l’altra, occhieggiando a
“Il Libro della Giungla” di Kipling, con sempre lo stesso bambino
protagonista, scampato al massacro della sua famiglia, ogni volta un
poco più grande, con gli stessi fantasmatici personaggi di contorno…
Un
romanzo per ragazzini, certo, denso di immaginazione e stupore, ma
anche una bella avventura per grandi, con tocchi di poesia e
riflessioni filosofiche sulla morte e sulla vita (o sull’amicizia,
che avrà sviluppi diversi e più realistici di quelli che possiamo
aspettarci, o sul coraggio), con momenti di paura (quello con i
Ghoul, ma ancora di più con il ricettatore… e poi ci sono i
terribili Jack…), colpi di scena, sorrisi ironici, inquietudine, e
tanta magia… Che non è solo quella del Cimitero e delle creature
eccezionali che lo abitano (il misterioso Silas, prima di tutti, o la
piccola streghetta senza lapide), ma altresì quella connessa al
crescere e allo scoprire, se stessi e gli altri, attraverso nuove e
antiche prospettive, confrontandosi con i morti e con i vivi.
Non
posso dire che sia una tra le opere migliori di Neil Gaiman: è
carina, delicata, però a tratti faticavo ad andare avanti, forse
perché fuori target, o perché abbisogno di maggior continuity, o
perché tante cose le ho già sentite e non mi hanno sedotta…
Tuttavia questo è un romanzo colmo di grazia, di tenerezza, di
lirismo, che nasconde molte gemme sfavillanti, accenti originali,
oltre a quelli tipici del genere (fiaba macabra per ragazzi), e che
ha pure delle graziose illustrazioni.
Probabilmente
se avessi avuto l’età giusta lo avrei apprezzato di più, ma
comunque sono contenta di averlo letto.
Segnalazione:
La Nicola Pesce Editore ha pubblicato la bellissima versione a
fumetti “The Graveyard Book”, adattata da P. Craig Russell, che
vanta tavole dello stesso Russell, ma pure di Jill Thompson, Kevin
Nowlan, Tony Harris, Scott Hampton, David Lafuente, Galen Showman e
Stephen B. Scott, con stili diversi, ma in armonia fra loro, a
seconda del tono del racconto. Consigliatissimo!
Uno
dei miei primi disegni da “adulta”, dopo anni di matita
dormiente, quello che mon amour ha utilizzato per la pagina mirror su
Facebook e per Twitter...
Non
ha prospettiva, lo so.
Ed
è sostanzialmente una massa informe di mostri, senza capo né coda
(beh, alcuni la coda ce l'hanno). ...Ma io amo i mostri, come avrei
potuto rinnegarlo?
L'unica
peculiarità è proprio il nero che fa da sfondo, anche se nella
versione scannerizzata non si vede... Avevo trovato un pennarello
stranissimo, di quelli adatti a scrivere sulla lavagna in metallo e
cancellabili, ma superluccicoso, e così l'ho usato: il risultato era
stato piuttosto divertente, perché conferisce spessore a qualcosa di
totalmente piatto, controluce cambia, e crea davvero una specie di
buio multidimensionale in cui possono annidarsi creature malvagie.
Altra
bizzarria: il gigantino peloso con il cappello a pois (che MPM sembra
voler associare alla mia faccia)... L'ho disegnato su un fogliaccio
di brutta e non sono più stata capace di riprodurlo, così ho finito
per incollarlo al disegno! La mia creatura prediletta, però, è la
margherita famelica, forse perché più sadica...
Lo
scopo dell'opera?
Intrattenere
il Ragno quando era piccolo.
Per
motivi misteriosi al cucciolo piaceva vedermi disegnare/colorare, e
in questo modo era più facile gestirlo... Il primo scarabocchio che
avevo fatto con lui in assoluto (davvero bruttarello, ma magari un
giorno lo posterò), rappresenta anche lui, tra un mostro e l'altro,
in un paesaggio collinare.
Un
romanzo interessante, surreale, che ricalca le caratteristiche
tipiche di Murakami senza discostarsene, fondamentalmente tronco,
irrisolto, ma d'altro canto non credo che avrei visto di buon occhio
una soluzione diversa...
Iniziamo
con il conoscere Sumire, ragazza particolare, aspirante scrittrice,
aspirante lesbica, che si innamora perdutamente di questa donna, Myu
(la ragazza dello Sputnik, appunto, ma solo a causa di un lapsus
letterario), sposata e più grande di lei, con un pesante segreto
sulla schiena. A narrarci le loro vicende il migliore amico di
Sumire, innamorato di lei, non ricambiato.
E
tutto procede tranquillamente, fin troppo, se non si è disposti a
lasciarsi stregare dallo stile dell'autore: il romanzo è statico,
pressoché privo di movimento, eppure ne percepiamo il fascino e
andiamo avanti. Fino a che, bam, la faccenda precipita!
Sumire
sparisce (sparisce sempre qualcuno nei romanzi di Murakami) e Myu ci
svela il suo segreto.
Questa
la chiave di comprensione dell'opera (che in parte ci riporta alla
realtà di “After Dark”), che ci strania, ci aliena, ma che,
personalmente, ho trovato di una potenza inusitata e totale.
Poco
credibile?
Dipende
dalla prospettiva che si vuole adottare, senza dubbio è necessario
accettare regole nuove... A me però sta, chiamiamola impropriamente,
“teoria della scissione”, suggestiona e ammalia, e non ho
difficoltà a lasciarmi incantare, e, soprattutto, date le premesse e
la conclusione, a giudicarla coerente, e questo, da un punto di vista
squisitamente narrativo, è l'unico requisito essenziale perché il
romanzo regga.
Certo,
una volta scoperto il passato di Myu non è che succeda granché...
L'opera torna ad affossarsi nella sua quieta staticità, ma io ho
trovato rilassante lasciarmi cullare fra i suoi placidi marosi.
Perché, per quanto drammatici siano gli eventi narrati, a me
Murakami fa sempre questo effetto: mi acquieta, e fa venire voglia di
scrutare il buio dietro gli specchi.
Forse
è questo che facciamo per tutto il corso del romanzo... ma per
un'attività del genere capisco sia necessaria una certa
predisposizione. Peraltro l'autore ha decisamente scritto opere
migliori, con più pathos, più immaginazione e i cui vertici onirici
ci hanno condotti molto più in alto...
Eh,
questo è un fumetto ipertrofico e cattivo… Di quelli pieni di
parolacce e violenza, sadismo e robina politicamente scorretta, ma
anche satira, denuncia sociale, intelligenza e godurioso spirito di
contraddizione!
Ci
sono i Supereroi, la versione rimaneggiata di Superman e Superamici,
per capirsi, con i superpoteri e un bel po’ di benefits, solo che…
il buon vecchio Ennis si diverte ad illustrarcene il lato oscuro. E
con ciò non intendo solo i danni che creano involontariamente, per
superficialità o colpa, a causa degli effetti collaterali dei loro
superpoteri (magari ammazzando una persona)… No. Intendo che - non
tutti, ma la maggior parte, pompati dalla propaganda e dalla
pubblicità - sono in realtà veri e propri malvagi prevaricatori,
squilibrati, egocentrici, drogati, stupratori e assassini, con alle
spalle una potente Multinazionale, ancora più abbietta e
delinquenziale. Olè!
E
dunque chi ci salverà? Ma gli antieroi, che più sfigati non si può…
Sfigati, ma dotati di coscienza, e anche atrocemente letali e
spietati quando serve… Oltre che pieni di sfumature e, magari, pure
loro, di più di una che dà sul nero, oltre che di un bel po’ di
scheletri nell’armadio… tanto che quasi ci si domanda: ma se i
Boys sono la cura, poi chi ci curerà dai Boys?
Insomma,
abbiamo una feroce critica verso gli omini in calzamaglia (che poi è
una scusa per criticare tutto il resto, dall’economia al potere,
puntando il dito ovunque, ma dopo esserselo infilato scrupolosamente
nel… ehm… per ribadire meglio il messaggio), ma anche una
fantastica dose di divertimento, azione e sangue che sprizza, come
nella migliore tradizione di Ennis!
Soprattutto
i primi volumi sono da sollucchero, ma non si arriva mai a stancarsi,
nemmeno quando la gioiosità cala in favore del dramma e la faccenda
diviene più cupa, seria e strutturata. Senza contare che, più si
procede, più ci affezioniamo ai personaggi, peraltro piuttosto
notevoli… Tra tutti il meno affascinante è il protagonista,
Hughie: simpatico, disperato q.b, ricco di empatia e sensibilità, ma
che serve soprattutto a rappresentare il punto di vista dell’uomo
buono e comune… il nostro. E che, come tale, trovo meno stimolante,
per quanto ci serva per scatenare situazioni di delizia stellare…
Tra i più stupendamente grotteschi, invece, spiccano Butcher, il
leader dei Boys, e il Patriota, il cattivone, una sorta di alter ego
rovesciato del povero Superman: senza limiti e senza requie (ma ci
sono diversi gruppi qui, ricalcati su omonimi team Marvel e DC, che
regalano emozioni)!
Ad
un primo sguardo il classico fumettaccio ultraviolento, volgare e
grottesco, solo più spassoso e meglio costruito… Ad un secondo:
molto, molto, molto di più. Perché mette in discussione tutto,
compreso se stesso, a suon di squarci brutali su quello che in
apparenza è buono, bello, super e dorato. Che può essere un
supereroe. Oppure una metafora.
A
me di Sherlock Holmes non è mai importato nulla (benché abbia
trovato stupenda la Serie “Sherlock” con Benedict Cumberbatch e
Martin Freeman)... Ma non mi è mai importato nulla nemmeno dei
pirati, eppure “I Goonies” è uno dei miei film preferiti di
sempre!!!
E
così “Piramide di Paura”, alias “Young Sherlock Holmes”, che
inserisco nel medesimo filone di godimento e gioia imperitura!
Il
protagonista è quindi Sherlock sedicenne, insieme al fido Watson,
qui nel corso del loro primo “caso” insieme! Una sorta di prequel
apocrifo, dunque, ambientato ai tempi del College – 1870 –, che
mescola avventura, commedia e horror, un po' sulla scia di Indiana
Jones (e non per caso, visto che c'è dietro... ad esempio il buon
vecchio Spielberg...), con in più un pizzico di tragedia, dramma e
dolente romanticismo... frammisto all'incanto adolescenziale!
A
piacermi, tuttavia, è soprattutto lui, Sherlock, per la sua
intelligenza, per la sua logica, ma ancora di più per il suo
carattere apparentemente freddo, che in realtà cela passioni
incandescenti! E poi l'amicizia che si instaura tra lui, Watson ed
Elizabeth (la dolcissima protagonista femminile), quando tutto è
ancora puro e assoluto! Ed apprezzo la trama principale, con
commistioni egizie ed esoteriche, a base di omicidi, cerbottane,
tintinnii di campanelli e sacrifici umani, ma anche le piccole
scaramucce da ragazzini che avvengono a scuola e che mettono in
rilievo la fantastica personalità di Holmes...
E
poi ci sono i duelli con la spada, le sequenze oniriche... Può un
pollo spaventarti a morte? Siamo sempre in bilico tra orrore e
buffosità, tra verità e illusione, ma.. sì, evidentemente il pollo
può (anche se il top è la sequenza con i pasticcini di Watson, che
mi ha fatto sbellicare per circa le prime venticinque volte in cui ho
rivisto la pellicola)!
Il
MPM lo detesta: da bravo estimatore di Conan Doyle sostiene che
questo film sia una bestemmia... Ma io sono agnostica, e mi diverto
un mondo, mentre emozioni, risate e paura si alternano in un mix
perfetto che mi fa tornare bamboccina! E non solo... Trovo
meravigliose e strazianti anche le allusioni inventate parametrate
allo Sherlock canonico, che conferiscono, persino ex post, bellezza e
spessore al personaggio: in particolare la questione di Elizabeth,
del “non voglio rimanere solo”, combinate con la futura misoginia
di Holmes. Wow!
Classico
capolavoro anni 80 per famiglie, che magari ai tempi ti stupiva per
l'immaginazione e gli effetti speciali, ma che alla fine ti è
soprattutto rimasto nel cuore, cristallizzando per sempre un pezzetto
della tua infanzia!
Non
guardo la Tv: mi deprime, annoia, avvilisce e mi uccide i neuroni. E’
stato infatti il MPM, colpito dalle discussioni sui social più
diffusi, a portare alla mia attenzione questo servizio de “Le Iene”
sui Manga e la Pedopornografia... Così, incuriosita, l’ho guardato
su Mediaset On Demand, e, come previsto, mi ha depressa, avvilita e
ha vituperato i miei neuroni.
Tuttavia
non mi ha annoiata, mi ha dato sui nervi.
Ma
si può essere più ignoranti ed avere un approccio più
intenzionalmente sviante e disonesto verso qualcosa che non si
conosce (ciò è evidente se si considera che per sta Nadia Toffa,
che conduce le interviste, i manga sono indifferentemente fumetti,
anime e generica roba giapponese)?
E
non ha il diritto di cronaca i limiti di verità e continenza?
La
giurisprudenza dice di sì (a mero titolo di esempio: Cass. Civ.,
sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1205, in senso conforme Cass. Civ.,
sez. III, 22 marzo 2007 n. 6973; Cass. pen., sez. V, 09 ottobre 2007,
n. 42067), ma evidentemente questo a “Le Iene” non interessa.
E
qui il problema non è dato solo da ciò che si afferma (facendo,
peraltro, un bel minestrone), ma, ancora di più, da quel che
artatamente si insinua e suggerisce.
Veniamo
al servizio: l’associazione da cui parte sta Nadia Toffa è Manga =
Sesso (dice anche
Sesso, va bene, ma ci scivola sopra, come se avesse paura di
scottarsi) = Porno = Bambine, ossia Pedopornografia = i Giapponesi
sono dei pervertiti. La domanda – provocatoria e suggestiva – con
cui conclude è: ma i manga sublimano un desiderio o lo scatenano?
Il
servizio prende in considerazione varie realtà (manga,
prostituzione, idol, bambole di silicone), le mescola e confonde
senza approfondire (forse in quel locale le ragazze si limitano a
parlare con i clienti, non fanno altro… ma noi non indaghiamo, ci
limitiamo a trarre conclusioni affrettate e decidere che si
prostituiscono, e se non lì, senza dubbio altrove), ci offre
spezzoni di interviste fatte di domande suggestive (quelle che
suggeriscono la risposta), cercando di glissare sulle questioni che
non rispondono alla verità distorta che l’intervistatrice si
affanna a cercare di dimostrare…
Ebbene,
intanto trovo gratuita e vergognosa l’associazione di partenza,
soprattutto perché decontestualizzata ed estrapolata dalla cultura
(doppia) a cui appartiene: quella dei fumetti e quella giapponese.
Partiamo
dai fumetti: si tratta di un ambito vastissimo, come dire: la
letteratura.
E
come in letteratura i generi sono tanti e diversificati. Quindi,
contrariamente a ciò che dà per intendere il servizio, non tutti i
manga sono erotici e non tutti gli erotici hanno come protagoniste
ragazzine. In più in Giappone si è molto più sensibili alla
differenziazione per fascia d’età (idem per gli anime), quindi non
tutti i fumetti sono destinati ai bambini e agli adolescenti (nemmeno
qui, del resto).
Insomma,
dire manga= porno è come dire letteratura = Harmony (che è peggio).
A
questo punto la Toffa insinua che le bambine giapponesi a furia di
leggere i porno decidano di dedicarsi alla pedopornografia. Ma
certo!!! Perché adesso le ragazzine nipponiche leggono i porno, non
gli Shojo… E poi che ragionamento è, misericordia? A me piacciono
gli horror, quindi vado ad ammazzare la gente? (In realtà era
proprio questo che si sentiva spesso in Tv e sui giornali spazzatura
quando ero al Liceo… Leggi Dylan Dog, quindi sei un’aspirante
omicida… Del resto, qualche anno dopo, si diceva: se guardi Sailor
Moon diventi gay… Offendendo ad un tempo le bambine, il femminismo
e i gay…)
E
poi c’è la cultura giapponese: è diversa dalla nostra, complessa,
multiforme… Ma noi la riduciamo alle fanciulline in deshabillé,
applicandovi per giunta, supinamente e acriticamente, i nostri
parametri di giudizio. Questo per me è sintomo di razzismo e
intolleranza.
Non
solo. Non è giornalismo.
Mancano
totalmente la volontà di capire, di approfondire. E soprattutto di
contestualizzare.
Per
tacere del fatto che si salta di palo in frasca, mettendo tutto in
unico calderone (ad esempio, siamo sicure che le baby-prostitute si
vestano da personaggi manga per adescare clienti? La scolara, la
ninja… Non sono piuttosto icone dell’immaginario collettivo
nipponico?) e contornandolo di domande tipo: Lei,
signore, non vorrebbe avere rapporti sessuali con una
quattordicenne?, come
se significasse qualcosa. Già, perché immagino che in Italia gli
uomini direbbero tutti di no… E certamente sarebbero tutti sinceri…
Pare
(ma io non so il giapponese, indi non lo so) che persino le
traduzioni siano sbagliate e distorte…
Ma
veniamo alla domanda finale: i manga sublimano un desiderio o lo
scatenano?
La
risposta che vuole indurci a dare il servizio è, ovviamente, che lo
scatenano, suscitando il nostro scandalo. Ma, vediamo…
Sul
fatto quotidiano.it mi si dice che il reato più frequentemente
commesso in Giappone è il furto della bici… Su
giappopazzie.blogspot.com scopriamo che la percentuale di stupri che
ci sono in Italia è di 4 volte superiore a quella nipponica.
Direi
che, allora, la risposta corretta è lo sublimano.
E
non ci vedo niente di male.
E
adesso pongo io un quesito a sta Nadia Toffa: Preferisci che il tuo
vicino di casa sessantenne ti stupri o che tenga sul divano una
bambola di silicone?