DI
COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO D’AMORE
di Raymond Carver
Di
Carver avevo letto soltanto l’antologia “Cattedrale” e questa
mi sembra sulla stessa lunghezza d’onda: racconti brevi, asciutti,
scarnificati, che narrano la normalità e le infelicità che si
nascondono dentro di essa.
Che
ti lasciano lì, sul momento, basito, inerme, ma poi, quando li
ripercorri nella tua mente, ti accorgi che ti hanno lasciato
qualcosa. Che non sai che cos’è, ma ha un sapore amaro, ma pure
autentico e, se tutto va bene, consolatorio. Uno spiraglio di luce.
Frammista a polvere, ma sempre luce.
Non
c’è ironia, in queste righe. Solo distanze siderali, cose non
dette e altre che preferiresti non aver sentito, perché fanno male.
Ti
spiazzano, ti alienano.
Ma
ti ammaliano, anche, restituendoti qualcosa che immaginavi solo tuo,
ma che invece è di tutti e la condivisione rende prezioso.
E
a volte ti sorprendi che non accada altro, a volte rimani
pietrificato perché non ti immaginavi questa deflagrazione
improvvisa, con tutto quel sangue. Si fosse trattato di un altro
autore… allora magari sì, ci saresti potuto arrivare. Ma da Carver
ti attendevi toni più posati, situazioni più ordinarie, più
banali…
Invece…
Non
c’è nulla di scontato, nemmeno l’ovvio, perché non sai mai da
che parte il vento decide di soffiare.
Diciassette
racconti, diciassette finestre sul mondo e sui sentimenti, di solito
deteriorati, di persone che non ce la fanno più, per una ragione o
per l’altra.
Di
cosa parliamo quando parliamo d’amore?
A
volte di noi, a volte di niente.
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