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venerdì 29 dicembre 2017

Tutto lo Sclavi del Mondo

TIZIANO SCLAVI IL NARRATORE DELL’INCUBO
A cura di Franco Busatta e Federico Maggioni


Tiziano Sclavi mi manca da morire.
Quello dei primi Dylan Dog (fino al numero 66, più o meno), quello di “Roy Mann”, di “Altai & Jonson”. Ma anche di “Tre” e di “Dellamorte Dellamore”. Quello che sentivo come autore geniale, ma anche come persona sensibile e unica, e come “i mostri”, che ho sempre adorato anche io. Quello che consideravo un mentore, un pungolo intellettuale e uno specchio (più bello) della mia anima.
Perché io non ero una di quelle fanciulle che amavano Dylan Dog, in quanto figo e tormentato.
Io amavo lui, Tiziano Sclavi, ben conscia che ciò che adoravo in Dylan era un riflesso di lui, di Tiziano.
E’ stato Sclavi che, in un modo o nell’altro, ha fatto da tramite per la maggior parte delle mie passioni, letterarie e non (Da King a Borges, da Magritte a Froud & Lee, da De André a Tartini). Forse prima o poi ci sarei arrivata lo stesso, e i germi spesso c’erano già, ma così, alla ricerca disperata dei suoi riferimenti e dei suoi percorsi culturali, ci sono arrivata prima. E’ stato Sclavi che mi ha aiutato a chiarirmi molte cose di me stessa, offrendomi un salvagente ogni volta in cui ne ho avuto bisogno.
E’ stato lui, in qualche modo, a farmi diventare me.
Tuttavia pensavo che se ad un certo punto ho smesso di amarlo e celebrarlo è perché sono cresciuta.
Ma leggendo questo libro mi sono accorta che forse, invece, è cresciuto lui, Sclavi, e che io non ho affatto smesso di amarlo. Non quella parte di lui resa immortale dalle opere che ho venerato (e ancora venero). 
La verità è che Sclavi si è evoluto, è cambiato, ha raggiunto un equilibrio o un disequilibrio o “un centro di gravità permanente” (o quel che si vuole), che lo ha reso adulto, portandolo, ormai da anni, lontano da me, che invece sono rimasta ancorata al suo precedente essere. 
Perché io, invece, in tante cose, sono rimasta come ero e ora so che quello Sclavi continuo perdutamente ad amarlo e a sentirlo parte di me.
Ebbene, ho capito tutto ciò perché questo libro mi ha finalmente restituito qualcosa di lui.
Come autore e come uomo.
E quindi mi ha restituito qualcisa di me. 
Come persona e come lettrice.
L’ho comprato per collezionismo, per completezza, per nostalgia. E ho impiegato un bel po’ prima di iniziarlo. Lo guardavo con diffidenza, con sospetto. 
Invece.
Invece coniuga tutto quel che deve coniugare (immagini, testi, pensieri, testimonianze, stralci di opere, citazioni, foto, ricordi. Persino foto di casa di Sclavi, dei suoi libri, delle sue statue), come neppure il film di Giancarlo Soldi è riuscito a fare. 
Non dice granché di nuovo, è vero. Ma lo dice bene ed è nuovo lo stesso. Perché riesce a catturare emozioni, situazioni, contesti. E anche qualcosa di lui. Di Sclavi. Del suo mondo. Del suo spirito. Della sua persona.
E per circa due ore l’ho amato di nuovo.
Come ai tempi del Liceo.
Ed è stato bello e intenso e dolce e commovente.
E per circa due ore il resto del mondo è sparito. 
E così quello che è venuto prima e quel che è venuto dopo.
Nonostante abbia detestato quasi ogni commento di Recchioni (che, peraltro, detesto anche come autore e come umano – anche se, ovviamente, non lo conosco di persona) e (non l’avrei immaginato) di Berardi (che pare rosicare. Ma perché? Julia fa schifo, okay, ma Ken Parker è pura arte!!!). Mentre ho amato teneramente ogni rigo di Alfredo Castelli, di Grazia Nidasio, di Carlo Ambrosini e di Bartezzaghi… Ad esempio. Perché sono in tanti a parlare e a proporre spunti, offrire dettagli, suggerire interpretazioni o frammenti di Sclavità.  
E poi la grafica... Stupenda! Caratteri chiari e grandi, ottimamente amalgamati con le foto, i disegni, gli sfondi. 
Che cosa avrei voluto di più?
Forse qualche elenco.
Di libri, di film, di Serie Tv, di autori e personaggi amati da Sclavi.
Tanto per essere sicura che non mi sia sfuggito qualcosa.
Anche se non abbiamo gli stessi gusti. Non sempre.
Lo deduco dagli “assaggini” verso fine volume, peraltro preziosissimi e stimolanti.

giovedì 28 dicembre 2017

Nessuna storia da raccontare

STAR WARS VIII – GLI ULTIMI JEDI
di Rian Johnson
(2017)


Meno squallido del precedente (del resto, peggiore non avrebbe potuto essere), meno disomogeneo, meno pedissequo, con qualche idea e qualche sforzo (e persino sfumatura) in più. Ma comunque viziato dalle sue premesse improbabili e farraginose, irto di battute stantie e fuori luogo, vilipeso dai nuovi interpreti, piatti e senz'anima, e dall'eccesso di retorica, dai passaggi drammatici volutamente forzati, per tacere della diffusa propensione all'autoimmolazione gratuita: troppi kamikaze finiscono per togliere significato più o meno ad ogni sacrificio, che presto suona come inflazionato e miserello e pare, più che un atto eroico, quello di uno sfigato in cerca di attenzioni.
L'inizio è abbastanza dinamico, ma incapace di coinvolgermi in quanto frutto di troppe incoerenze, banali e cortigiane, che, di nuovo, non sono che la replica, depauperata, degli stilemi della trilogia classica. Il problema dei personaggi sterili e bidimensionali si accentua, facendomi sperare in un attacco di Aliens o di Critters assassini. I dialoghi sono privi di pathos; eresie sparse si altenano a ridicolaggini spacciate per momenti comici (Porg? Maddài! Diciamo che abbiamo bisogno di produrre merchandising). Il giochino del remake mascherato da sequel continua (rubacchiando persino qualcosina a Star Trek). Rei è una piattola lacrimosa. Kylo Ren è una piattola lacrimosa. Persino Luke è una piattola lacrimosa. In più sono tutti scorbutici. Le giustificazioni alla base del passaggio al lato oscuro di Kylo Ren sono doppiamente campate per aria, in ordine tanto all'evoluzione psicologica di Luke quanto dello stesso Kylo Ren, buttate lì senza criterio giusto per creare il colpo di scena. Il doppiatore di Yoda non si può sentire (e da quando chiama Luke per cognome?). D-3BO non fa più ridere, ma fa venir voglia di consegnarlo ai Jawas affinché lo smantellino. Non ho commenti, invece, per la trasformazione di Leila in Superman, supremo apice di bruttezza e non-sense... Forse la Disney vuole comprarsi anche la DC e inizia a fare pubblicità. Non trovo altre spiegazioni.
Ah, sì... Poi ci sono gli effetti speciali.
Che non mi interessano. 
Nel complesso, il film è troppo lungo, stenta, traballa, a tratti pare che la sceneggiatura sia stata scritta con un'accetta: le capacità tattiche della Resistenza sono inferiori a quelle delle lumache di mare. Snoke riesce nella difficile impresa di rivelarsi un cattivo più deludente di Darth Maul.
E' vero, Rian Johnson cerca di colmare qualcuna delle tragiche voragini del VII, ma i miracoli non li può fare e crea ulteriori voragini ancora più ulcerose. Cerca di approfondire il misticismo legato alla Forza, purtroppo bypassando troppe volte il canone di Lucas.
In generale, rispetto al VII, il film è meno stupido, meno banale, meno palloso. E nei passaggi finali, quanto meno, riesce a svincolarsi dalla zavorra de “Il Risveglio della Forza” e di applicare con più impegno la formula vuota di “ricalca e ribalta”, che, se non altro, finisce con l'avere meno il sapore metallico dell'espediente e ad assomigliare un po' di più ad un abbozzo di trama... 
Ammettiamolo, tra una copiatura, una corbelleria e uno svarione, a fare un film, questa volta, ci hanno provato e Kylo Ren, nonostante il suo aspetto da racchia isterica, dopo qualche falsa partenza migliora notevolmente e fa scaturire persino un paio di scintille di interesse. 
L'impressione, tuttavia, è che in questa nuova trilogia non ci sia nessuna storia da raccontare, ma, semplicemente, si cerchi la fortuna al botteghino, mescolando (male) idee vecchie e rilucidate per l'occasione ad un'accozzaglia di improvvisazioni fan service. 

Voto 5+. Al VII avrei dato 0 - - -.

Motivi di interesse:
Luke si rifugia ad Alberobello, infatti ci sono i trulli (MPM).
Luke sembra Tyrion Lannister, solo più anziano, più alto e meno fico.
Il femminismo imperante nelle fila della Resistenza.

mercoledì 27 dicembre 2017

Interminati spazi e sovrumani silenzi

BABILON
di Danijel Žeželj


Non è facile in questo periodo scegliere che cosa recensire: tra la fiera di Lucca e Natale esce la maggior parte dei fumetti migliori e tocca selezionare. Ciò nondimeno, per quanto da novembre stia macinando sulle dieci graphic novel a week-end (una più bella dell’altra), la scelta di “Babilon” si è imposta in modo naturale.
E’ un volume unico, muto, con disegni scolpiti nel foglio e nel sangue. Bianchi e neri, potenti, evocativi, onirici, incubi mentali dai riverberi alienanti. Eppure a misura d’uomo e non privi di speranza, leggerezza, emozione. Ricchi di allegorie, di simboli, di richiami, con le pagine ripartite in modo libero e selvaggio, ma studiato e non casuale, un montaggio eccellente e particolari nuovi che emergono ad ogni rilettura. Con qualcosa di struggente impigliato fra una vignetta e l’altra, fra un palloncino e un desiderio non formulato, che ti arriva dritto al cuore, anche se magari nell’immediatezza non lo avverti in modo nitido e consapevole.
Un volume fatto di “interminati spazi” e “sovrumani silenzi”, che si celano fra gli intarsi di Bezdomni, il protagonista,  fra i suoi attrezzi allineati e negli sguardi attenti della sua nipotina.
Pure la trama è bellissima.
Semplice, lineare, ma ben strutturata, e con una deliziosa sorpresa finale. Che sa di ribellione, di giustizia, di magia e contraddizione. 
E persino quell’incipit, che lì per lì pare ultroneo, ridondante, con il bar e la tazza di caffè, si rivelerà, alla fine, un tocco di perfezione formale.
Ci vorrebbero più fumetti così.
Fumetti capaci di dire tutto e di raccontare sfruttando appieno le immagini, senza bisogno di spendere una parola. Senza parlarsi addosso, senza sbrodolare inutili e retoriche verbosità.
Fumetti che non hanno bisogno di annegare il lettore in eloqui straripanti per entrare in comunicazione con lui e lasciargli qualcosa di sé.
E che pure, ad ogni rilettura, riescono a dire qualcosa di più, qualcosa di nuovo, che ritrovi dentro te stesso.

martedì 26 dicembre 2017

Ipocrisia e buonismo di massa

LA SVILENTE CONDOTTA DI UN TIZIO IN STAZIONE


Questo è un fatto a cui ho assistito di persona una mattina di qualche giorno fa e che mi ha fatto vergognare di essere italiana.
Preciso di non essere una di quei fanatici pro immigrazione, acritici e ingenui, che vedono il mondo con gli occhi a forma di cuore. Preciso di non essere neppure una di quegli ipocriti che si schiera per convenienze varie, mascherate da buonismo di massa. In linea di massima, io aderisco più al tipo della nichilista rassegnata e ho, quindi, un punto di vista neutro, privo di pregiudizi di sorta. 
Veniamo allora al fatto.
Siamo in stazione, nella sala d'attesa. Un ragazzo di colore mette il suo tappetino per terra e inizia a pregare. Lo fa a voce bassa, quasi bisbigliando. A volte si genuflette, si prostra; altre si alza. Non disturba nessuno. Posso affermarlo con certezza perché io ero l'unica seduta lì vicino e praticamente non lo sentivo.
Tuttavia, atteso che a noi tocca togliere i crocifissi da scuola (che scemenza), se qualcuno si fosse sentito urtato dalla faccenda avrei ancora potuto capire. In fondo, il ragazzo avrebbe potuto andarsene altrove a pregare (se non l'ha fatto, poveretto, probabilmente è perché stava morendo di freddo): la sala d'attesa di una stazione può essere considerata un luogo inopportuno per tali manifestazioni. Ma nessuno si è avvicinato chiedendogli di spostarsi o di smetterla. Nessuno ha brontolato o ha interloquito.
In compenso, un tizio – armato di macchina fotografica e teleobiettivo – mentre consumava la colazione al bar lo ha notato è ha iniziato a strepitare, ad agitarsi, a ridere, e a scattare foto a raffica alle spalle del ragazzo, con tanto di flash. Sembrava una scimmia al Circo.
Io ovviamente, indignata, mi sono alzata e mi sono messa in mezzo, per ostruirgli la visuale.
Il tizio mi ha fatto cenno di spostarmi, scocciato.
Io, più scocciata di lui, gli ho risposto di scordarselo e sono rimasta lì impalata finché non ha rinunciato.
Dico, ma si può? Si può essere tanto irrispettosi? Tanto ottusi? Tanto ignoranti? 
Che disgusto.
Che tristezza.
E, si badi, non si trattava di uno studentello con gli ormoni a palla nato col cellulare in mano, ma di un uomo sulla sessantina abbondante e dall'aspetto assolutamente normale.
Non so che cosa farà delle maledette foto che ha scattato.
Spero che gli si infilino nell'omega. 
E che mentre sta agonizzando, qualcuno fotografi lui.

lunedì 25 dicembre 2017

Abbiamo un nuovo campione!

REGALI DI NATALE...

Lo sapete, il mio spirito natalizio è quello che è, indi non parlo dei doni classici o comunque meditati e sentiti. Parlo di quelli bizzarri, che sono più una presa in giro che un pensiero, ma di cui si sorride per l'idea...
Ebbene, in testa ci sono sempre stati i miei fratocugini, che si divertono a stupirmi, ma i cui presentini senz'altro denotano inventiva, ingegno e fantasia, tanto più che sono realizzati con pochi mezzi, all'ultimo minuto, e generalmente risultano garbati. Non so ancora che cosa mi aspetti oggi – ammesso che non si siano ancora stufati di stupirmi – giacché prima io e MPM dobbiamo arrivare a Pietra per il pranzone con i miei... Tuttavia, qualunque diabolico piano abbiano orchestrato i fanciulli, fin d'ora sono certa che quest'anno abbiamo un nuovo campione! 
Ecco, infatti che cosa mi ha consegnato un mio collega di studio (non quello infratrentenne, quello ultracinquantenne) da mettere sotto l'albero:


Sconvolti?
Ma non è un articolo da sexy shop. Non è uno sconcio attrezzo del piacere. È uno spremiagrumi manuale. Chiaro che non me lo ha regalato perché ho bisogno di vitamina C, ma per il riferimento fallico (no comment).  
Io, dal mio canto, avendo, lo ammetto, truffaldinamente sbirciato nel pacchetto (c'era un pacchetto) prima di comprare il suo regalo (insieme al collega giovine), sono passata al contrattacco e ho scelto una Stella di Natale. Un fiore, insomma. Un dono serio e dolce. A cui ho applicato biglietto d'auguri (di fortuna) bello stucchevole, sul tipo: “Affinché possa colmare il tuo Natale di gioia e di bellezza”. 
Il poveretto, quando l'ha trovato sulla scrivania, si è sentito in colpa ed è venuto a fare precisazioni varie sul suo magico dono, sostenendo, in particolare, che sa che sono una persona dotata di ironia, capace di apprezzare un pensiero burlone etc. etc. 
Io ho fatto la gnorri dicendo che naturalmente non l'avevo ancora scartato. 
Intanto sghignazzavo nell'ombra.
Certo che so apprezzare un pensiero burlone.
Ed infatti, anziché sforzarmi di ignorare il Natale come faccio di solito, ne ho fatto il soggetto principale del mio post natalizio.
Tanti auguri a tutti!!!

P.S.
L'oggetto è finito dritto dritto in una pesca di beneficienza.
Sono dolente, ma a me lo spremiagrumi piace elettrico. ;)

venerdì 22 dicembre 2017

Un amico di nome Greg

QUEL FANTASTICO PEGGIOR ANNO DELLA MIA VITA
di Jesse Andrews


Divertente e spumeggiante romanzo di formazione, dallo stile spiritoso, vivacizzato da elenchi strambi e cambi di prospettiva, da grossi “Se” e da riflessioni bizzarre, immaginazione sfrenata, battute ironiche e bozze di sceneggiatura, e tuttavia assai più complesso di come appare e caratterizzato da una tragica e inaspettata aderenza alla realtà.
Perché è un romanzo adolescenziale, con tutti i dubbi e le incertezze che ne conseguono quando si riferiscono ad un ragazzo insicuro e fondamentalmente solo, vuoi per scelta, vuoi per incapacità di esprimersi.
Ma pure perché è un libro sulla leucemia. Che non colpisce Greg, il protagonista, ma una sua compagna di scuola, presto migliore amica, Rachel.
E che parla di lei, dunque, ma soprattutto di lui, che non vuole aprirsi o schierarsi con nessuno e che, fino ad ora, è riuscito a schivare qualunque etichetta bazzicando tutti senza legare... Salvo con Earl (il personaggio che preferisco, anche lui con un milione di problemi, assai concreti), con il quale realizza film amatoriali che non vuole mostrare a nessuno, e che, tuttavia, definisce collaboratore e non amico, in quanto gli amici sono una debolezza.
E anche se l'argomento è difficile e spinoso (tanto che sin da subito Rachel viene identificata come la ragazza morente), lo spirito è leggero, scanzonato, benché non ci permetta mai di dimenticare che non siamo in un racconto umoristico, in un film d'amore o in una fiaba a lieto fine. 
E il bello è che Greg, a ben vedere, sia pure con tutte le esimenti del mondo, non è che sia una gran simpatia o un campione di sensibilità, anzi... Eppure ci piace lo stesso, soprattutto perché è genuino, e ci piacerebbe conoscerlo, anche se solo Rachel riesce a far breccia nella sua studiata corazza...

P.S.
C'è anche il film, con lo stesso titolo. Non è brutto, ma, sinceramente, avrei preferito non vederlo.

giovedì 21 dicembre 2017

Non solo per nerd

TRIVIAL PURSUIT DEI FUMETTI


L'ho sempre desiderato, ma non esisteva... ora c'è, e io lo adoro!
Ideato da Sergio Bonelli Editore, ma incentrato non solo sulle pubblicazioni della casa editrice, è un normalissimo Trivial Pursuit, che però consta di sei insolite strepitose categorie: Personaggi, Autori, Fumetti Stranieri, Eroi e Supereroi, Fumetto Umoristico, e... sì, Bonelli. 
Le domande sono molte, variate e contemplano quesiti di una semplicità disarmante, ovvi anche per i profani, come pure questioncelle per nerd raffinati, cultori della materia, divoratori di saggi e dizionari, o di media difficoltà, e possono attingere al passato recente, al quasi presente, come agli albori della storia del fumetto, o – addirittura – alle contaminazioni con il cinema. Insomma, ce n'è per tutti! 
Tuttavia l'unico che si presta a giocare con me (tra una sofferenza e un lamento) è il Mio Perfido Marito (la cui categoria preferita è altresì quella a me più invisa: i Supereroi). Peraltro, non comprendo perché sia così restio, dato che due volte su tre vince lui, sia pure per un soffio e dopo un'ardua battaglia... 
Ad ogni modo, io mi diverto da matti, tanto che, per ingordigia, ho proposto di saltare tutta la faccenda delle lauree (ossia gli obiettivi intermedi da conseguire prima del domandone finale) e limitarci a porci direttamente gli interrogativi a raffica. Mon amour, però, non vuole. La verità è che, secondo la leggenda, le Otte sono dotate di memoria totale, tanto che le persone che le circondano, e MPM in particolare, temono di giocare due volte con loro con le stesse carte, sia pure a distanza di mesi, anni o eoni. La leggenda, infatti, narra che le Otte si ricordino di qualsiasi cosa e quindi, dopo la prima volta, non si possa più condurre una partita lealmente avendole come avversarie. Loro, infatti, sapranno inevitabilmente tutto. Persino se i quiz, poniamo, vertono su argomenti a loro ostici, come il calcio. Naturalmente è solo una leggenda e, tendenzialmente, le Otte dichiarano se la loro è sapienza o involontaria memoria truffaldina... Ciò non di meno, io ho il divieto assoluto anche solo di prendere le carte in mano! Per fortuna, comunque, ce ne sono parecchie e non è così rischioso incappare due volte nello stesso quesito. Per giunta non sempre vengono date delle scelte e talvolta, se ci sono, possono essere formulate in modo ingannevole.
Più che altro, sarebbe bello avere altre persone con cui giocare... 

P.S.
Allegato al gioco, un simpatico librino, assai maneggevole e godibile, di circa 160 pagine, ossia “Sergio Bonelli – La Fabbrica dei Sogni”, enciclopedia dei personaggi Bonelli dal 1941 ad oggi.

P.P.S.
Scoperta recente: esiste altresì il Trivial Pursuit della letteratura distribuito da Feltrinelli... L'ho ordinato e non vedo l'ora che attivi. Per questo, tra l'altro, ho già una volontaria con cui giocare!

mercoledì 20 dicembre 2017

Quei fracassoni della Tavola Rotonda

KING ARTHUR
– Il Potere della Spada 
di Guy Ritchie
(2017)


Non ho mai visto l'epopea di Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda così stravolta e fracassona (Mordred e Merlino docet) o, se si preferisce, liberamente tratta, con effetti speciali spaziali e quasi discotecari, e l'elemento fantasy così calcato e arricchito, ma non a scapito della trama avventurosa.
Ma proprio per questo la pellicola è strepitosa, perché non è la solita zuppa stra-raccontata (beh, a tratti sì, ma non importa) e risulta innovativa, diversa, sui generis, e come tale non sempre prevedibile, in primis sotto il profilo registico. Guy Ritchie sorprende con il suo sistema di mostrarci diversi spezzoni temporali contemporaneamente, miscelando dettagli irrisori e punti esiziali, e, superato l'effetto magmatico iniziale, risulta effervescente e pieno di ritmo. 
Poi ci sono i personaggi: meravigliosi. A partire da Artù (che pare più un incrocio fra Robin Hood e un orfanello disperato che non il futuro Re di Camelot), il quale, sin da piccolo, porello, prende una saccagnata di botte. Botte da orbi e botte da tutti. E mi piace pure l'interprete, Charlie Hunnam, bellino ma non troppo bamboccio, simpatico, ma non gradasso, abile a sottolineare l'idealismo del protagonista, ma anche crucci e insicurezze. Apprezzabili altresì i suoi amici – tanto che ogni perdita pare una stilettata – ciascuno dotato di tridimensionalità e motivi di affetto. Senza contare che... mai Excalibur è stata più potente. Ma non per questo la battaglia sarà facile o il suo esito scontato: faticoso, infatti, sarà imparare a governarla, tanto che, tra una battaglia e un incantesimo, si intravede persino un po' di romanzo di formazione.

Curiosità: nel cast anche Roose Bolton e Petyr Belish de “Il Trono di Spade”.

martedì 19 dicembre 2017

Un romanzo di indiscusso fascino

IL VOLTO RITROVATO
di  Wajdi Mouawad


Questa prosa è come acqua, acqua salata, fatta di lacrime, e piano piano sale, producendo onde, poi cavalloni, mugghiando, sempre più tumultuosa, imperiosa, ferina, crea gorghi e tsunami, aggredendo e ingoiando tutto ciò che incontra, sempre più fragorosa, prepotente, grandiosa.
Di una fluidità unica, è un inarrestabile flusso di coscienza, che avvolge e seduce, che incalza impetuoso, e presto ti cattura al punto di non riuscire ad arrestarti perché farlo equivarrebbe a buttarsi da un treno in corsa. 
Solo che non è un treno, ma un ciclone, assai più pericoloso.
E si susseguono immagini forti, crude, feroci (quegli arti di legno e quella testa divorata sull'autobus in fiamme restano a lungo impresse nel nostro immaginario, fissi, a scrutarci), immerse in un panorama narrativo fatto di sentimenti intensi, fratture e lirismo, di disperazione e dolcezza, connotati altresì da una potenza estetica che se da una parte ci demolisce, dall'altra ci edifica, lasciandoci qualcosa di caldo dentro, da cullare e custodire.
In quanto alla trama, è interessante, densa di emozioni, ma non elevata e scioccante come “Anima”, dello stesso autore (si veda post 30/11/2015). Del resto, quanti libri – salvo i grandi classici – possono affermare di esserlo?
“Il Volto Ritrovato” è parimenti un romanzo di indiscusso fascino, che sa di sradicamento. Vissuto, però, con la vibrante assolutezza che caratterizza i quattordicenni, drammatico, formativo, che, nonostante tutto, finisce per tracciare un percorso, strano e inconsueto, quasi onirico, sicuramente doloroso, per arrivare finalmente a se stessi e alle proprie origini, una volta catapultati nella maggiore età.

lunedì 18 dicembre 2017

Un'antologia di racconti disturbanti

TOMIE
di Junji Ito


Sostanzioso volume unico (oltre 700 pagine), dalle splendide atmosfere malate (sebbene non eccessivamente forti), che occhieggia al Maestro Kazuo Umezu e sa di anni '70 per quanto sia stato scritto nel 1987.
Protagonista è Tomie, una fanciulla bella quanto malvagia, che fa innamorare di sé tutti gli uomini, schiavizzandoli e rendendoli dipendenti da lei anche sotto il profilo psicologico, fino a che questi sono inevitabilmente indotti a farla a pezzi. Solo che il suo corpo, smembrato, massacrato, scisso, si riforma, portando alla moltiplicazione della ragazza e, quindi, alla sua diffusione.
Un'antologia di racconti disturbanti, morbosi, dichiaratamente horror, in cui i ruoli di vittima e carnefice sono ambivalenti come amore e morte e si alternano in un incredibile sequela di variazioni sul tema, talvolta collegandosi tra loro, tal'altra no. 
Devo ammettere che l'opera è interessante, sia per lo splendore dei disegni, molto dettagliati e inquietanti (basta un sorriso di Tomie per far venire la pelle d'oca, ma troveremo molto più di questo nel susseguirsi delle vignette), sia per le atmosfere che si iscrivono nella miglior tradizione giapponese, facendo paura tanto a livello stilistico quanto sul piano intimo e morale.
Le corruzione che consegue alla conoscenza di Tomie, infatti, non risparmia nessuno, nemmeno i buoni e gli innocenti, e affronta le sue unghie perfette nei più sordidi e meschini sentimenti umani, finendo quasi sempre, in modo più o meno consapevole, per scatenare la più nera follia paranoide. 
Non un capolavoro assoluto, magari, ma di certo un manga raffinato e ammaliante.

venerdì 15 dicembre 2017

Alla ricerca del mio passato scolare

CHE DICE LA PIOGGERELLINA DI MARZO
Le poesie dei libri di scuola degli anni Cinquanta


Ovviamente io a scuola negli anni ‘50 non ci sono andata, nel senso che ci è andata, semmai, la mia Mater, tuttavia non appena ho letto il titolo di questo curiosa raccolta non ho potuto che far eco con tenerezza alla poesia di Angiolo Silvio Novaro ripresa nel titolo con un bel  “che picchia argentina/ sui tegoli vecchi/ del tetto, sui bruscoli secchi/ dell’orto, sul fico e sul moro/ ornati di gemmule d’oro?”, perché, ridendo e scherzando, le poesie dei libri di scuola degli anni 80 erano pressoché le stesse identiche.
E dunque eccomi a scorrere avidamente le pagine in cerca di brandelli delle mie Elementari…  E devo dire che, al di là dell’effetto nostalgia, mi sono divertita e commossa. Ci sono infatti componimenti struggenti e ispirati, come l’immancabile “Pianto Antico” di Giosuè Carducci o la poesia – che ho sempre adorato, benché non sia forse annoverabile tra i capolavori immortali della letteratura – che Camillo Sbarbaro ha dedicato a suo padre, o la stupenda “X agosto” di Giovanni Pascoli, come pure, sinceramente, robe ridicole, stucchevoli e imbarazzanti, pregne di umorismo involontario, che strepitano di valori ormai desueti o, attualmente, persino grotteschi (tipo l’amor di patria).
Al di là di ciò, questo è stato, almeno per me, un doppio viaggio, in primis alla ricerca, appunto, del mio passato scolare, in secundis, beh, se vogliamo, di un insolito affresco sociologico, stantio quanto improbabile e buffo ( a questo proposito rimando alla sagace introduzione al volume di Pietro Dorfles e alla gustosa premessa dell’editore).
A ciò, sono seguite alcune stupefacenti agnizioni… Ad esempio, chi si ricordava che “La Notte Santa” (che in II° Elementare la maestra ci aveva fatto interpretare per Natale) fosse di Guido Gozzano? 
Insomma, un librino divertente, che bramavo senza saper di bramare e che mi ha consentito di dare sostanza ad alcune reminiscenze impigliate nella mia memoria le quali, tuttavia, senza aiuto non avrebbero saputo trovare la loro voce.    
Graditissimo.

giovedì 14 dicembre 2017

Una sensazione positiva

IO PRIMA DI TE
di Thea Sharrock
(2016)


Un film che ho visto quest’estate, ma che non ho ancora smesso di rielaborare.
Toccante, divertente, colmo di riflessioni, di scelte difficili, ma non di malessere, e che, chi l’avrebbe detto, quando finisce, nonostante tutto, lascia una sensazione positiva e dolce, di pienezza e di gioia.
Inizialmente si presenta come una variazione scontata e romantica sul tema di “Quasi Amici”, con declinazioni diverse, ma un’ottima sequela di momenti divertenti, alternati ad altri drammatici e conditi di rosa. Più drammatici, in verità. E mai rosa del tutto. 
Ma non si tratta di questo, per fortuna. Perché qui si intraprende un percorso completamente diverso, persino opposto, che potrà non essere condivisibile, e che è difficile soprattutto se lo si subisce – come amico, genitore, partner – ma che è comunque rispettabile e comprensibile, e va capito. Accettato. E supportato.
In effetti, proprio per questo, la pellicola è da vedere, diventando più di quello che sarebbe stato altrimenti (ossia una commedia deliziosa), elevandosi, e denotando così coraggio e originalità, oltre che sentimenti contraddittori e non convenzionali.
Attenzione, però: se, di primo acchito, l’io del titolo può far pensare al protagonista maschile, presto è evidente che i ruoli sono stati distribuiti in un altro modo e che la realtà iniziale è da vedersi ribaltata.
L’opera, infatti, sostanzialmente un romanzo di formazione, è invece incentrata sulla vitale Louisa (Emilia Clarke), il personaggio femminile. In apparenza è il ricco William (Sam Claflin), tetraplegico e scorbutico, ad aver bisogno di lei, ma poi diviene chiaro che è lei, simpatica, allegra, frizzante, che ha bisogno di aiuto per vivere la sua vita. 
Uno di quei film che affrontando l’evoluzione dei personaggi. Che necessariamente maturano e divengono più consapevoli, fa crescere anche gli spettatori, che è spassoso in molti punti, e altamente serio e doloroso in altri, ma che alla fine si è contenti di aver visto in quanto portatore di valori positivi.
In ultimo, una menzione speciale a Emilia Clarke, qui davvero irresistibile, seppur lontanissima dal personaggio di Daenerys Targaryen, che l’ha resa famosa. Se, infatti, ne “il Trono di Spade” l’attrice è sempre con il volto di pietra, qui invece dimostra di avere semmai una faccia strepitosamente di gomma, dalle mille, adorabili, espressioni.

mercoledì 13 dicembre 2017

Fantascienza che ti toglie il fiato

IL RACCONTO DELL’ANCELLA
di Margaret Atwood


Trama magistrale per questo sconvolgente e bellissimo romanzo di Margaret Atwood, che poi è, a grandi linee, la stessa della Serie Tv e della pellicola cinematografica che ne sono scaturite (si veda post 27 ottobre 2017). Qualche differenza c’è (si vedano, ad esempio, la madre della protagonista o le connotazioni linguistiche),  ma di poco conto, anche se…
Ecco, a leggerlo, e fare un confronto con i suoi derivati, si ha come l’impressione che tutte le tessere del mosaico trovino la loro corretta collocazione e correlazione. 
Perché ci viene spiegato qualche dettaglio in più (ad esempio, circa il nome di Serena Joy o sulle attività delle Colonie o sul significato delle passeggiate al Muro), benché, al contempo, il confine tra implicito ed esplicito sia assai più marcato, e si lascino più cose all’immaginazione del lettore. Il vero nome di Difred, per esempio, non ci viene mai rivelato, ma soprattutto è diversa la conclusione, più aperta, più incerta, e, se devo dirlo, decisamente più bella.
Sia nel film che nella Serie Tv – in cui pure si sottende una seconda stagione – appariva frettolosa, sbrigativa e, nel complesso, un po’ deludente.
Qui, invece, è perfetta in totale equilibrio con quanto è avvenuto prima e con i nostri sentimenti, senza facili soluzioni o passaggi scontati.
Fantascienza, dunque, ma di quella che ti toglie il fiato, occhieggiando al 1984 di Orwell e al femminismo, introspettiva, spietata, intelligente, e acuminata come uno stiletto.
Lo stile dell’autrice, poi, è cadenzato e quieto, con un ritmo tutto suo che sa di interiorità, di rielaborazione,  e costituisce un perfetto contraltare con le atrocità che descrive, sul piano psicologico, più che su quello materiale, in cui invece viviamo gli orrori descritti quasi di riflesso, senza che ci venga mai mostrato nulla in presa diretta (ma è comunque più che abbastanza). 
Che altro dire?
Che ho già comprato “Per ultimo il cuore” e “L’altra Grace”, sempre della Atwood e che non vedo l’ora di iniziarli.

martedì 12 dicembre 2017

Un amorevole ratto gigante

SOLO
di Oscar Martìn


Sette volumetti, per ora, uno più bello dell’altro.
Siamo in un mondo post apocalittico alla Mad Max, in cui la brutalità regna sovrana e gli umani, naturalmente, sono i peggiori di tutti. Accanto ad essi, animali antropomorfi, vittime o carnefici (ma spesso entrambi), che, nonostante il simpatico tratto cartoonistico e gli occhioni espressivi, non lesinano su dissanguamenti e sventramenti vari, peraltro necessari per assicurarsi la sopravvivenza.
L’opera ha infatti una buona carica violenta, ed è molto forte altresì sul piano emotivo, benché, a dispetto delle numerose sequenze dolorose, cerchi sempre di mantenere uno spiraglio di speranza e di riscatto, anche quando le cose vanno davvero male.
Si potrebbe opinare che in linea di massima non ci siano trovate di grande originalità, che siamo al cospetto di tanti elementi già noti miscelati in modo differente, ma… non è proprio così.
Intanto perché, proprio la circostanza che in questo futuro distopico convivano uomini e animali antropomorfi dà luogo ad un sotto testo  particolare (si vedano, ad esempio, “le fattorie”), abbastanza innovativo persino nei fumetti (di norma o ci sono gli umani o le bestie antropomorfe) che fa male persino a livello etico, descrivendo – inevitabilmente – crudi parallelismi con noi. E poi ci sono le incredibili doti dell’autore, non solo sul piano grafico, ma pure in quanto a montaggio, azione, emozione e sentimento. Le trame, infatti, sono ben costruite, fluide, ricche di suggestioni, ma soprattutto percorse da un ritmo adrenalinico e ruggente, che, al contempo, concede al lettore ampi respiri, tali da rendere, di volta in volta, ancora più d’impatto la sequenza successiva. 
Chi è Solo?
Un ratto gigante (per essere un ratto, ma le proporzioni con gli animali come li conosciamo noi non sono rispettate), guerriero iper muscoloso, duro, abile e scattante, ma ancora capace di amore e di compassione.
Anche laddove la sua sofferenza si farà più disperata e cocente.

lunedì 11 dicembre 2017

Un sacco di roba

THE FIVE


Lo sceneggiatore è Harlan Coben, scrittore di gialli. Uno scrittore particolare di gialli, visto che, a metà di uno dei suoi romanzi, ha il coraggio di uccidere l’investigatore protagonista. Me lo ha detto MPM, che nel giallo/thriller/noir ha il suo genere d’elezione (uno dei pochi che non mi entusiasmano) e che così mi ha convinta a guardare questa Serie Tv.
E ha fatto bene, perché è interessante, ultra condensata e con un sacco di roba.
Non ci sono, infatti, laceranti prolissità televisive volte ad allungare una storia esile e labile. Al contrario, la trama è carica di sotto trame (sequestri, abusi, segreti, violenze), che si risolvono nell’arco di pochi episodi, a cavallo tra passato e presente, mentre altre sotto trame si incistano su quelle vecchie. A fine stagione (dieci episodi), peraltro, si risolverà altresì il filone principale, che poi è quello che fa da collante alle varie vicende e ci tiene tutti col fiato sospeso, dato che ha in sé qualcosa di impossibile.
Come può essere, infatti, che il sangue di Jesse, un bambino scomparso nel 1995, plausibilmente ucciso da un pedofilo reo confesso, si trovi oggi sul luogo di un efferato omicidio? E’ forse lui l’assassino?
Se lo chiedono i quattro protagonisti, quattro amici di infanzia, coinvolti in vari modi nella vicenda anche perché Jesse era, appunto, il fratellino di uno di loro ed era scomparso proprio dopo che il gruppetto lo aveva allontanato per la sua giovane età… 
L’incipit è stimolante, ma tantissima è la carne al fuoco che viene aggiunta nel prosieguo. E che pure non costituisce uno sviamento dal quesito principale. Il quale, peraltro, viene affrontato in modo leale, ma ingegnoso, frutto di numerose premesse e concatenazioni, salti temporali e mezze verità, che però tengono ben desto l’interesse dello spettatore e che soprattutto non deludono nemmeno nel finale, rivelando, anzi, persino un tocco di genio.
Anche i singoli personaggi, sebbene non ci si affezioni in particolare a nessuno, hanno un background piuttosto ricco e diverse faccende da chiarire, mentre la narrazione è incalzante e affascina per i numerosi risvolti sociali.

venerdì 8 dicembre 2017

Una grossa bolla di sapone

1Q84 libro III
di Haruki Murakami


Non sono entusiasta.
Le idee ci sono, così la scrittura splendida di Murakami, ma… ecco, mi sembra che la storia non vada da nessuna parte. 
Non dico che sia inconcludente e priva di suggestioni: i personaggi seguono i loro percorsi e le caselline si allineano tutte, senza lasciare nulla di incompleto, però, suvvia, dopo aver tenuto il fiato sospeso per, complessivamente,  oltre 1000 pagine mi aspettavo qualcosina di più, specialmente sotto il profilo emozionale. Invece nemmeno l’incontro tra Aomame e Tengo, tanto agognato, mi ha suscitato granché. Troppo poco e troppo tardi, come si suol dire.
Ma, ancora peggio, la Setta e i Little People restano ormai quasi sullo sfondo, senza palesarsi più di tanto, limitandosi a fare da propellente o “condizione di procedibilità”.   
E’ vero che Murakami tende di suo ad essere parco di spiegazioni, non è questo che contesto, il punto è che anche la forza allegorica in questo terzo capitolo scema e il ritmo spesso ne risente, si spezza, arranca. 
Ho apprezzato che finalmente anche il personaggio dello sgradevole Ushikawa ci offra il suo punto di vista, assurgendo ad uno dei maggiori motivi di interesse del romanzo, ma, in generale, ho faticato ad andare avanti e sovente mi sono interrotta: la trama si diluisce troppo, diventa ripetitiva, si strascica. 
Ad un tratto mi sono resa conto di non essere nemmeno interessata a giungere alla fine.
Ci sono arrivata, ovvio, e guardandomi indietro non posso dichiarare che non mi sia rimasto nulla, anzi, ma forse avrei preferito evitare questo terzo libro e limitarmi ai primi due.
Che diavolo, non mi capita quasi mai di fare affermazioni del genere, ma, a ben pensarci, sul serio avrei preferito non leggerlo e continuare a interrogarmi e immaginare.
Perché la storia, di per sé, è ricca di spunti eccezionali, ma finisce per perdersi in se stessa. 
E ora mi dà l’impressione di una grossa bolla di sapone, un po’ tremolante, che poi è scoppiata.
E non c’è niente di male, in questo. 
Le bolle sono belle. Evocative. Sublimi.
Ma fino alla fine del secondo volume io ero convinta di essere, invece, al cospetto delle sfumature cangianti di un lago, sotto la cui superficie nuotano stupende creature perdute.
Pazienza.

giovedì 7 dicembre 2017

Più che ridere, sbeffeggiano

I MIEI CAPELLI MOSTRUOSI MUTANTI


Sono davvero mostruosi e non so come pettinarli.
Per un paio di mesi mi sono riempita la testa di gel, poi sono passata alla spuma. Quindi mi sono stufata. Perdevo un sacco di tempo e mi sembrava di avere un perenne casco in testa, inoltre non potevo nemmeno toccarmi la chioma che rimanevo impiastricciata, tipo topo nel vischio.
Ora, però, sembro Little Tony.
O un incrocio tra Lucy Van Pelt e Little Tony.
O fra un cespo di insalata e Little Tony.
Oppure pare che indossi un colbacco di peli di gatto.
Gesù.
Tagliarli?
Fa freddo… E poi non risolverei il problema e dovrei rivivere da capo l’era del gel. Checcavolo. Odio il gel.
Il fatto è che questi non sono i miei capelli.
Sono ispidi, spessi, crespi e pure grigi.
Io ho sempre avuto i capelli setosi, lisci e castano chiaro.
La verità è che questi sono gli stupidi capelli post chemio, quelli che mi sono cresciuti dopo il periodo pelato (in cui, modestamente, stavo benissimo. Ma fratelli, colleghi, amici e Perfido Marito mi hanno pregato di farli crescere, quindi forse piacevo solo a me). I medici mi avevano detto che per circa sei mesi, un anno (quasi decorso per intero), i capelli sarebbero cresciuti mutanti. Ma non così indomiti e selvaggi.
Invece lo sono. E mi sbeffeggiano. 
Persino il mio parrucchiere è rimasto un po’ sconvolto. Parola d’ordine: “Sfoltire”, ha detto. E poi ha aggiunto che si sono ribellati, invertendo il senso di crescita. 
Ciò a luglio. Poi, su consiglio di tutti, ho deciso di farmi crescere la capigliatura. 
Ma ora ho un aspetto… inconcepibile!
Misericordia! 
E il mio fido cappellino non migliora le cose: sembro Pierino la peste!
Alla fine temo che mi arrenderò e li farò tagliare.
Sperando, con questo, di non prendermi un’infreddatura.
In effetti, il colbacco incorporato presenta alcuni pregevoli vantaggi: tiene un caldo favoloso. Meglio del berretto di lana.

mercoledì 6 dicembre 2017

La conquista del pianeta rosso

CRONACHE MARZIANE
di Ray Bradbury


Indiscusso capolavoro fantascientifico per genialità e lirismo, e, tuttavia, non una delle opere di Ray Bradbury che preferisco.
Per l’eccesso, a volte, di stucchevolezza e per l’eccessiva prolissità di alcuni passaggi. Ma ciò a voler essere noiosi e ultra-critici, perché, in effetti, questa antologia di racconti è davvero grandiosa, soprattutto se si valutano i sotto testi e le idee che fanno capolino sotto – ma non troppo sotto – la patina di divertimento.
Come è proprio della miglior fantascienza, infatti, Bradbury applica alla colonizzazione di Marte da parte dei terrestri le paure, le contraddizioni e i difetti dell’uomo ricamandoci abilmente sopra e confezionando storie ironiche, talvolta spassose, talaltra pregne di nostalgia e solitudine, o ancora satiriche e spiritose, che hanno in comune la capacità di rivelare qualcosa di profondo e di farci riflettere, facendo emergere il subconscio individuale e collettivo. Talvolta assestandoci, contemporaneamente, un sonoro sberlone che ci scuoterà nel profondo.
Il filo conduttore, si diceva, è la colonizzazione di Marte iniziata nel 1999 e protratta, con alterne fortune, sino al 2026. Chiaramente, essendo il libro stato scritto nel 1950, è come dire nel prossimo futuro. 
I personaggi variano, benché qualcuno ogni tanto ricompaia, ma la successione è cronologica e ci consente di osservare le tappe della conquista del pianeta rosso. Che avviene in modo pacifico (salvo qualche decesso accidentale, ma non troppo drammatico), senza dispiegarsi di effetti speciali o astruse meraviglie scientifiche. Il centro della narrazione, in un modo o nell’altro, è sempre dato dalla sensibilità – umana come pure marziana –, dal confronto tra le culture (e in particolare l’autoanalisi della propria) e dall’evoluzione terrestre… che, quando sulla Terra scoppia la guerra, impone alla coscienza della maggior parte dei coloni di tornare in patria. 
Un classico senza tempo.

martedì 5 dicembre 2017

Un insieme di sorprese formidabili

TRAIN TO BUSAN
di Sang-ho Yeun
(2016)


Sono entusiasta.
Il tema è sempre quello, ormai inflazionato, degli zombie (anche se questa volta sono velocissimi, ciechi al buio, e disarticolati in modo spaventoso), tuttavia la pellicola è un insieme di sorprese formidabili, adrenalina e novità, che la rendono qualcosa di unico e che, per giunta, offre più piani di lettura (si rifletta sul contrasto, sottolineato dal montaggio, tra la paura suscitata dal clochard senza biglietto e quella che, in prima battuta, NON provoca il morto vivente, nonché sull’andamento fulminante  dell’infezione, che neutralizza i privilegi – pretesi e ottenuti – delle classi agiate).
Per cominciare, l’epidemia – con contorno di denuncia sociale, appunto, a fronte delle sue possibili cause e delle sue tragiche reazioni – che si propaga alla velocità della luce, regalandoci scene impressionanti, di grande effetto, che ipnotizzano e sconcertano per il tasso elevatissimo di dramma umano e orrore. 
Prima di ciò, le avvisaglie, sottili e magnificamente dosate, tanto da farci venire i crampi allo stomaco anzitempo, in un contesto che più quotidiano e ordinario non si può, ma che, proprio per questo, appare azzeccato.
Quindi gli zombi, gli infetti: lontani dal canone romeriano e più terrorizzanti del solito a causa dei movimenti frenetici e sconnessi e dell’espressione feroce, anziché vuota e rassegnata.
E poi i personaggi: non la solita carne da macello insopportabile (beh, alcuni sì). Soggetti profondamente umani (tanti apprezzabili), commoventi, indifesi o dotati di spessore e della capacità di evolvere e cambiare, passando da una concezione egoistica imperniata sulla sopravvivenza ad una di collaborazione e altruismo, con cui è facile immedesimarsi ed empatizzare. Che ci faranno gridare, sperare, inveire, dalle nostre poltrone, coinvolgendoci come non mai. 
Senza dimenticare l’ambientazione, davvero insolita per un horror (benché ci ricordi Snowpiercer): il treno (per fortuna dei protagonisti non i trenacci di Trenitalia, dato che siamo in Corea). Un treno da cui si vede di tutto e su cui capita di peggio, straziandoci persino sotto il profilo della solidarietà. E che oscilliamo tra il voler lasciare e il voler barricarci dentro.
In ultimo, il ritmo: eccezionale. L’inizio è tranquillo, ma si inserisce quasi subito la quarta, senza concedere un attimo di tregua, tenendoci sulla corda fino all’ultima scena. 
Che è tenerissima e ci spiazza.   
Direi, senza esitare: l’horror migliore di quest’anno.

lunedì 4 dicembre 2017

Un’allucinante satira sociale

FANTOZZI
di Paolo Villaggio


Il primo libro appartenente alla serie tra quelli riproposti da Bompiani sul tragico personaggio ideato da Paolo Villaggio. Nel senso che ci sono altresì due seguiti rieditati di recente, nonché la possibilità di acquistare tutti e tre i volumi in un’unica conveniente soluzione attingendo alla collana “Vintage”. 
Comunque… 
Non un romanzo, ma una serie di racconti divisi per stagione (come Marcovaldo, se non erro) e, ovviamente, contraddistinti dal medesimo protagonista e dai comprimari: la Signora Pina, la Contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, Fracchia…
Già, Fracchia, Ufficio Sinistri. Non il Rag. Filini. Filini, per ora, è giusto una comparsa, ma il suo ruolo coincide perfettamente con quello che qui è di Fracchia. Per il resto, Fantozzi è sempre lui, ma, rispetto ai film, ci sono scene in più e scene in meno, oltre al fatto che, in generale, percepisco una maggior feroce cattiveria. Che non guarda in faccia a nessuno, nemmeno ai bambini (i quali, all’occasione possono venir mangiati). E’ proprio questo, a mio avviso, il punto principale. 
Fantozzi può far ridere (non me, io soffro), me è prima di tutto un’allucinante satira sociale. Una denuncia che spara a zero su tutti – ricchi, poveri, sistema, potere – e dissacra. Intanto lo stesso Fantozzi, certo, ma non perché sia sfortunato, quanto piuttosto perché se lo merita. Senza dubbio è un soggetto mite, ma è pure ignobile, servile e ignavo. 
Come riesce ad essere un capolavoro? 
Be’, personalmente ne apprezzo innanzitutto la surrealtà. La caricatura esasperata mi stanca, ma, ad esempio, trovo adorabile la “nuvola da impiegato”, quella spregevole nuvoletta che segue ogni impiegato in vacanza, rovesciandogli addosso litri di pioggia, quando in ogni altro posto è sereno.., 
Poi c’è il linguaggio iperbolico, ironico e tragico (l’aggettivo che ricorre con maggior frequenza, ma utilizzato in modo inusitato, sebbene il mio preferito sia “laocoontico”), per il quale tutti i Direttori sono “Mega”, o “Galattici”, o peggio, e le loro famiglie vengono definite “Spettabili”. A questo proposito, un’autentica meraviglia è il glossario in fondo al volume, a cura di Stefano Bartezzaghi. Esatto, quello della Settimana Enigmistica. E’ una chicca, soprattutto per l’acuta analisi che reca in sé e che non si ferma ai meri vocaboli – di cui pure fornisce informazioni preziose e letture interessanti, ad esempio spiegandoci le innovazioni stilistiche di Villaggio e i suoi nessi obliqui – ma che indaga l’anima più intima del personaggio nonché del suo mondo, popolato di cialtroni e di corbellerie.

venerdì 1 dicembre 2017

Un'autoanalisi critica

IN SOSPESO
di Anna Maxted


L’ho letto diversi anni fa, su insistenza di mia sorella, che me lo aveva proposto senza commenti.
Lo avevo scambiato per un romanzino divertente, femminile, un po’ alla Bridget Jones, che probabilmente non avrebbe avuto i suoi fulminanti tempi comici e la sua simpatia, ammorbandomi con inutili stucchevolezze romantiche...
Falso.
Il romanzo è sì divertente e femminile, e la protagonista può ricordare Bridget in alcune sue manie, ma… tanto per cominciare, a sorpresa, il taglio è assai più drammatico.
Per quanto, infatti, il tono si mantenga ironico e sopra le righe, leggero e piacevole, vengono affrontate questioni difficili e importanti come il rapporto con i genitori, il dolore della separazione, la  solitudine e il lutto, mentre si fa la propria autoanalisi critica.
Se uno vuole un libro da treno, quindi, per intrattenersi e passare il tempo, può leggerlo con disinvoltura, sogghignando delle peripezie della protagonista e persino facendosi qualche sana risata. 
Se uno preferisce scendere un po’ più a fondo, però, oltre a divertirsi, troverà pure del buon materiale, che potrà essere foriero di riflessioni, discussioni o di crescita personale, ma non scadrà nella retorica né nella banale stucchevolezza.
Nell’uno e nell’altro caso, peraltro, di Bridget Jones non ci importerà nulla, nel senso che il romanzo si conquisterà uno spazio suo, indipendente, graffiante, che apprezzeremo per se stesso, senza la necessità di fare paragoni.
Personalmente, rammento con precisione che il libro mi era piaciuto – benché non fosse esattamente il mio genere, mancando di suggestioni immaginifiche – tanto che, dopo aver letto quello che mi aveva dato Chiccachu (a sua volta avuto in prestito da una sua amica), ho voluto comprarmi la mia copia.