SOGNO
NUMERO 9
di David Mitchell
Non
mi ha presa subito.
In
principio faticavo ad orientarmi, sentendomi subissata da un eccesso
di input e trovandomi dislocata in un sistema di regole capovolte e a
se stanti, che non mi sembrava di poter afferrare.
Ma
sono andata avanti, un po’ per fiducia, un po’ perché… beh, la
bellezza e l’immaginazione erano palpabili, intense, la
fascinazione complementare allo smarrimento, e sentivo che c’era
della sostanza alla base e non solo il vuoto gusto di stupire.
Ed
ecco che allora, a dispetto di parentesi, digressioni e ribaltamenti
continui, ho potuto godere con pienezza e appagamento di un romanzo
che va oltre la parola scritta, ma è pure un’esperienza lisergica
ed extracorporea, in quanto combina elaborazioni mentali,
reminiscenze e azione come vetrini in un caleidoscopio.
Originale,
raro, fantasmagorico, con picchi di violenza e di sentimento, che
sublimano la vita e la verità, le radici e il senso dell’universo,
fino a confonderli e creare nuovi microcosmi. Destinati a esplodere e
a tornare all’ordinarietà del quotidiano. Che tuttavia ordinario
non è, dipanandosi in modi imprevedibili e rapidi, fino al
ripiegamento su se stesso come a rinnovate, improvvise deflagrazioni.
Il
protagonista – che dapprima ci sembra un folle psicopatico, ma che
è solo un ragazzo di vent’anni con un passato difficile e molta
fantasia – si chiama Eiji Miyake e viene a Tokyo in cerca del
facoltoso padre che lo ha abbandonato... Ovviamente gli capiterà di
tutto e di più, con noi al seguito, a decifrare le sue ingarbugliate
vicende e i suoi ricordi, a conquistare, avvicinarsi, comprendere e
perdere tutto.
Per
certi versi, e a prescindere dall’ambientazione, ci ricorda il
miglior Murakami (di cui, ad esempio, viene compiutamente citato
“L’uccello che girava le viti del mondo”), per altri se ne
distanzia, risultando più denso, scioccante, “catramoso”.
Da
leggere, però.
Anzi,
da affondarci le dita e immergerci il cervello.
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