REQUIEM
di Antonio Tabucchi
Anni
fa ho avuto un periodo “Tabucchiano”, nel senso che nell’arco
di un paio di settimane devo essermi scofanata sette-otto sue opere,
una dietro l’altra, con ingordigia assoluta…
Lo
scopo, credo, era nutrirmi delle sue sensazioni, di emozioni placide
e acute, olfattive, tattili, ma filtrate nel non essere, nel vano
tentativo di afferrare l’impalpabile, ovvero Tabucchi stesso, il
suo paradigma.
Tra
tutte le esperienze, quella che più avevo apprezzato e avevo
considerato maggiormente formativa era stata “Requiem”, assai più
scorrevole e incantato, per dire, di “Sostiene Pereira”, il suo
successo più noto.
Ebbene,
rimembro “Requiem” come un libro magico, evanescente, che ama
sfuggire alle definizioni, composto di incontri e attimi, di
riflessioni, ma ben orchestrate, armoniose, poetiche, e poi di
dialoghi, osservazioni, discussioni…
La
caratteristica principale è che questi incontri avvengono con
soggetti defunti e densi di lirismo (come dimenticare il Venditore di
Storie?), mentre rincorriamo un appuntamento che non ricordiamo bene
se è a mezzogiorno o a mezzanotte… in ultimo approdiamo (come
spesso avviene nelle opere di Tabucchi) al poeta Ferdinando Pessoa, e
intanto vivacchiamo Lisbona, la assaggiamo – letteralmente – e ci
ungiamo le dita, sprofondando nel dolce dolore del ritorno ad un
passato, forse non del tutto compiuto…
E
ci godiamo il caldo, anche quando è torrido, e ci immergiamo nel
sogno, senza essere certi che lo sia, nella realtà, nell’inconscio,
nelle associazioni di pensieri vaganti…
Diamo
corpo alla città – che è lì, oppure no – ma non a noi stessi…
La
trama è lineare, semplice, eppure non c’è, è illusione.
E
alla fine non siamo più sicuri di che cosa abbiamo letto o di quel
che è avvenuto dentro di noi. Non sappiamo distinguerlo.
Sappiamo
solo che ci è piaciuto.
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