HERZOG
di Saul Bellow
Romanzo di spessore, questo, che è soprattutto un viaggio nella mente del protagonista e narratore, Moses Herzog, appunto, non proprio un simpaticone (eppure sì), ma di certo un soggetto interessante, intellettuale, colto, traboccante di contraddizioni, di fisime, ma pure di un particolare umorismo non privo di elementi autobiografici, utili per tentare di interpretare quel complicato congegno che è la mente – geniale, ma astrusa – di Bellow, ma che, contemporaneamente, pare offrirci altresì qualche tassello spaiato di Philip Roth, che di Bellow era l'allievo e che, infatti, del libro ha scritto la postfazione.
L'opera non mi ha presa da subito, nonostante l'incipit potente: prima ho dovuto familiarizzare con lo stile e soprattutto col personaggio. Che alla fine, tuttavia, conquista (specie quando è più vulnerabile, alla Stazione di Polizia o in rapporto alla bambina o all'ex moglie) ed è capace, non solo di lanciare strali ed invettive, ma pure di evolvere e di dubitare, come di mettersi in discussione, di fare autocritica, tanto che diventa sempre più vivido e sincero. Personaggio che si diverte a scrivere lettere assurde (oppure no?) a varie celebrità – non necessariamente in grado di rispondergli, a prescindere dalla circostanza di spedire o no le missive – riversandoci abbondanti porzioni di se stesso, che elucubra, cogita, racconta. La solitudine, la sconfitta, la propria logorata esistenza.
Un lungo monologo, dunque, depresso, ma non deprimente, infarcito di riflessioni e digressioni, ma curiosamente coeso, alla fin fine, strutturalmente equilibrato, dalla prosa ipnotica ed ammiccante che ha la leggiadria tipica dei grandi classici. E che, come i grandi classici, è fatto di strati sovrapposti e conserva qualcosa di magico che resiste al tempo e varia con lo stato d'animo di chi legge.
Prossimo appuntamento: “Le Avventure di Augie March”.
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