IL
TUO NOME SULLA NEVE
di Clelia Marchi
(Gnanca
una busia)
Misericordia!,
questo ho sospirato all'inizio.
Sia
perché non è facilissimo leggere un libro così sgrammaticato (i
curatori non hanno voluto intervenire sul testo per non alterarne
l'autenticità), sia perché, di fatto, è un vero catalogo di
disgrazie.
Sta
povera donna, la scrittrice, una vecchietta che ha fatto appena la
seconda elementare (e se ne scusa), ci racconta di se stessa, della
sua vita, che, decisamente, è stata un cumulo di sofferenze.
E'
nata nel 1929 in una famiglia povera, circondata da gente ancora più
povera, in cui si patiscono freddo e fame, e l'unica prospettiva è
spaccarsi la schiena tutto il giorno per poter patire altro freddo e
altra fame.
A
sedici anni, la signora Marchi si è “sposata” con uno al cui
confronto i suoi erano benestanti. A questo punto ha cominciato a
scodellare figli, a ripetizione. E se lei comunque era contenta,
perché amava i suoi bambini, al contempo i piccoli rappresentavano
un problema, una bocca in più da sfamare, tanto che il buon senso (e
i familiari acquisiti) consigliavano “l'abbordo”. Naturalmente,
col tempo, quattro degli otto figli muoiono. Naturalmente poi il
marito, l'unico grande amore dell'autrice, viene investito da un'auto
e muore pure lui (e da lì nasce la brama di scrivere, per affrontare
il dolore della perdita). Gesù! Da tagliarsi le vene.
Ma
allora perché leggere questo libro?
Personalmente
del fatto che sia scritto su un lenzuolo non mi importa un bel nulla.
Ma questo non significa che non abbia apprezzato la lettura. E'
notevole, infatti. A prescindere dal lenzuolo.
Intanto
ha un grande valore come testimonianza di un tempo che non è più,
di una realtà che noi a stento riusciamo ad immaginare, di un
diverso modo di essere, di vivere, e di pensare. E alla fine,
nonostante il mio fastidio iniziale, condivido persino la scelta dei
curatori di non alterarne il linguaggio, che comunque non è privo di
una sua rozza poeticità, e che, soprattutto, è sincero da far male,
accorato, dolcissimo, vibrante, denso di afflati lirici, a suo modo.
Bello, persino.
Inoltre
l'opera costituisce un valente spunto di riflessione. Per due motivi,
essenzialmente: il primo è che ci permette di realizzare davvero che
la nostra, chiunque noi siamo, nonostante tutto, è sul serio una
vita di svergognato benessere, in cui diamo ogni cosa per scontata e
ci rammarichiamo se, che ne so, possiamo andar a mangiar fuori solo
una volta a settimana (sapete che facevano i bambini quando le mucche
defecavano per strada? Ci andavano a mettere dentro i piedi, per
scaldarseli almeno un momento). In secondo luogo, e soprattutto,
perché la signora Marchi risponde per noi ad una domanda di quelle
cruciali, con la “d” maiuscola: ossia, a che pro vivere se non
facciamo che patire e tribolare?
Per
l'amore, ecco perché.
Perché
l'amore vale tutto.
E
la nostra coraggiosa vecchietta è così sincera che non possiamo che
crederle.
Nessun commento:
Posta un commento