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martedì 10 marzo 2015

Un cumulo di sofferenze


IL TUO NOME SULLA NEVE
di Clelia Marchi

(Gnanca una busia)
 

Misericordia!, questo ho sospirato all'inizio.

Sia perché non è facilissimo leggere un libro così sgrammaticato (i curatori non hanno voluto intervenire sul testo per non alterarne l'autenticità), sia perché, di fatto, è un vero catalogo di disgrazie.

Sta povera donna, la scrittrice, una vecchietta che ha fatto appena la seconda elementare (e se ne scusa), ci racconta di se stessa, della sua vita, che, decisamente, è stata un cumulo di sofferenze.

E' nata nel 1929 in una famiglia povera, circondata da gente ancora più povera, in cui si patiscono freddo e fame, e l'unica prospettiva è spaccarsi la schiena tutto il giorno per poter patire altro freddo e altra fame.

A sedici anni, la signora Marchi si è “sposata” con uno al cui confronto i suoi erano benestanti. A questo punto ha cominciato a scodellare figli, a ripetizione. E se lei comunque era contenta, perché amava i suoi bambini, al contempo i piccoli rappresentavano un problema, una bocca in più da sfamare, tanto che il buon senso (e i familiari acquisiti) consigliavano “l'abbordo”. Naturalmente, col tempo, quattro degli otto figli muoiono. Naturalmente poi il marito, l'unico grande amore dell'autrice, viene investito da un'auto e muore pure lui (e da lì nasce la brama di scrivere, per affrontare il dolore della perdita). Gesù! Da tagliarsi le vene.

Ma allora perché leggere questo libro?
 
 
Personalmente del fatto che sia scritto su un lenzuolo non mi importa un bel nulla. Ma questo non significa che non abbia apprezzato la lettura. E' notevole, infatti. A prescindere dal lenzuolo.

Intanto ha un grande valore come testimonianza di un tempo che non è più, di una realtà che noi a stento riusciamo ad immaginare, di un diverso modo di essere, di vivere, e di pensare. E alla fine, nonostante il mio fastidio iniziale, condivido persino la scelta dei curatori di non alterarne il linguaggio, che comunque non è privo di una sua rozza poeticità, e che, soprattutto, è sincero da far male, accorato, dolcissimo, vibrante, denso di afflati lirici, a suo modo. Bello, persino.

Inoltre l'opera costituisce un valente spunto di riflessione. Per due motivi, essenzialmente: il primo è che ci permette di realizzare davvero che la nostra, chiunque noi siamo, nonostante tutto, è sul serio una vita di svergognato benessere, in cui diamo ogni cosa per scontata e ci rammarichiamo se, che ne so, possiamo andar a mangiar fuori solo una volta a settimana (sapete che facevano i bambini quando le mucche defecavano per strada? Ci andavano a mettere dentro i piedi, per scaldarseli almeno un momento). In secondo luogo, e soprattutto, perché la signora Marchi risponde per noi ad una domanda di quelle cruciali, con la “d” maiuscola: ossia, a che pro vivere se non facciamo che patire e tribolare?

Per l'amore, ecco perché.

Perché l'amore vale tutto.

E la nostra coraggiosa vecchietta è così sincera che non possiamo che crederle.

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