PAESE
D’OTTOBRE
di Ray Bradbury
I
più famosi sono quelli di “Cronache marziane”, fantascientifici
ed eccezionali, densi di meraviglia e di immaginazione. Ma i miei
racconti preferiti di Bradbury sono questi, dai contorni imprecisi, i
confini labili, confusi con la quotidianità, che sfumano nell’horror
e nel fantastico, percorsi da una vena malinconica, che non
puntano a stupire, ma sono essi stessi stupore.
Paese
d’ottobre o Cronache terrestri.
Diciannove
racconti brevi, “autunnali”, con tocchi di genio e di dolcezza,
pregevoli per le idee, ma ancora di più per lo stile e l’atmosfera,
per la capacità di coinvolgimento immediata, per il sentimento, che,
in un modo o nell’altro, si annida dentro di loro, anche quando non
viene esplicitamente cantato.
E
dunque incontriamo l’amore e la morte, la sottile e stridente
vertigine del terrore, i vampiri e l’infanzia, l’oscurità e il
bizzarro, nonché i becchini che ti portano via...
Ma
niente fantascienza.
I
generi spaziano, si mescolano, ma qui siamo sintonizzati su un canale
diverso, fantastico, ma meno eclatante, più nascosto. Tuttavia assai
più insinuante.
La
verità è che ho letto questo libro un milione di anni fa, e
rammento più una sensazione generale che i singoli brani.
Ricordo
che c’erano alcuni capolavori immensi ed altre storie che avevo
letto volentieri, ma senza entusiasmo, trovandole più prevedibili.
Ma
ricordo anche che se il titolo, già al momento dell’acquisto, mi
era parso splendido e suggestivo, dopo aver terminato l’opera mi
era apparso perfetto e non mi aveva delusa.
Un
classico misconosciuto che andrebbe riscoperto.
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