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lunedì 29 maggio 2017

Il fardello della colpa

I MAGNIFICI SETTE
di John Sturges
(1960)


Che poi, in realtà, è un remake pure questo, precisamente de “I Sette Samurai” di Akira Kurosawa, però americanizzato in salsa western.
Adesso, tuttavia, la voglia è quella di paragonarlo al rifacimento del 2016 (vedi post del 26.5.2017).
Ebbene, questo del ‘60, a mio parere, vince per tematiche e atmosfera (meno truce, ma più realistico e meno leccato), seppure per azione, ritmo e adrenalina preferisca il film di Fuqua.
Qui, però, si sentono di più il fardello della colpa, la consapevolezza della morte imminente e della dannazione, l’ambivalenza dei protagonisti – che soprattutto per questo sono magnifici – e dell’ambiguità con cui vengono considerati dagli abitanti del villaggio, nonostante quel che hanno fatto per loro (contenti che siano venuti, ma più contenti che se ne vadano) e in più il tema dell’eroismo della fatica e della responsabilità dei lavoratori, cui finalmente vengono restituite libertà e dignità, ma che, tuttavia, come Bernardo/Charles Bronson ci insegna, già prima erano da ammirare.
Il villaggio dei messicani è più compatto di quello minerario, eppure qui si staglia l’ombra del tradimento, viene dato rilievo ai bambini (meravigliosi), con le risate e la tenerezza che ne derivano, ma purtroppo ci sono anche parti pallose, eccessivamente sentimentali e stucchevoli, come quelle con il giovane Chico, desideroso di essere accolto nel gruppo dei pistoleri, e poi tra lui e la Fanciulla, alla quale con fatica perdoniamo lo stato di estasi in cui cade improvvisamente e senza motivo… Con qualche tocco, se analizzato con lo sguardo di oggi, perfino di umorismo involontario (con tutto che, per contro, ho apprezzato l’epilogo della loro storia, per via della motivazione ad esso sottesa e dovuta alle origini contadine di Chico, che come tali lo legittimano).
Per il resto, posso affermare che, se nella pellicola del 2016 il mio prediletto è Red Harvest, ossia l’Apache, qui è senza dubbio Bernardo/Charles Bronson, che adoro senza confini. Anche, però, Yul Brynner mi ha conquistata, con la sua innata eleganza, lo sguardo penetrante e il portamento statuario. 
E poi c’è Eli Wallach, nei panni del cattivo, Calvera. Mi piace, perché non è malvagio e basta: ha semmai uno spirito pratico, come lui stesso ammette. E non è privo, a suo modo, di tridimensionalità, con quel “perché” che gli muore sulle labbra.
Certo, per quanto ottimamente conservato, in alcuni passaggi il film accusa gli anni che ha e il fatto di essere figlio del suo tempo. 
Che resti un capolavoro, però, non credo sia in discussione.

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