LA
NOTTE DEL LEOPARDO
di Wilbur Smith
Del
povero Wilbur ho già parlato abbastanza male nel post del 18febbraio 2014, quindi ora vedrò di dire qualcosa di più carino.
“La
notte del Leopardo” non è male.
Non
è neanche un capolavoro, ma, dopo qualche resistenza iniziale, segui
volentieri le peripezie dei personaggi, partecipi dei loro
sentimenti, ti immedesimi, ti godi il sublime paesaggio, le belle
descrizioni fluide, il momento storico, almeno a livello narrativo (a
proposito, siamo nel pieno della Guerra Fredda, tra gli anni 70 e 80,
nello Zimbabwe, che rivendica la sua indipendenza), le sfaccettature
dell'Africa, l'azione e l'avventura, che qui si complica e ha
sfumature alla James Bond.
Il
romanzo non fa vibrare le corde del tuo cuore, ma ti intrattiene, ti
emoziona, ti avvince e , a suo modo, ti conquista.
E
non lo dimentichi nemmeno troppo in fretta, per quanto gli
ingredienti siano sempre i soliti: non sto a ribadirli (mi richiamo
al post già citato) anche se, lo riconosco, lo Zimbabwe cantato qui
è molto diverso rispetto a quello dei tre romanzi precedenti
appartenenti allo stesso ciclo ed, è vero, è molto più
interessante.
Ad
ogni modo, un po' sono sleale, perché questo non è il miglior
romanzo di Smith che abbia letto. Ci arriverò agli altri, prima o
poi.
Se
oggi mi è venuta voglia di recensirlo è perché, a suo modo,
nonostante il drammatico copia e incolla di cui ho già parlato, è
stata una sorpresa.
Fa
parte del ciclo dei Ballantyne, ma si può leggere tranquillamente da
solo, atteso che i riferimenti ai precedenti volumi sono abbastanza
labili.
Il
punto, però, è che io, invece, li ho letti tutti di seguito, e se
per i Courtney (l'altra grande genealogia di cui lo scrittore ci ha
narrato le gesta) ho sempre provato immediata simpatia, i Ballantyne,
invece, non li ho mai digeriti. Non so perché.
E
non ero prevenuta, chiedevo solo di amarli.
Non
c'era verso.
Invero,
qualche personaggino apprezzabile nel corso dei vari volumi si è
anche incontrato, ma mai che fosse uno dei protagonisti. E spesso
finiva pure male.
Craig
Mellow, invece, l'eroe de “La notte del Leopardo”, benché in
principio non mi abbia entusiasmato manco lui, tutto sommato è
apprezzabile.
Non
lo ricordo come un tipo particolarmente carismatico, né lui né i
comprimari (rammento come significativo solo Tungata Zebiwe, ad
essere onesti). Ma nemmeno si presentava come tale. E più che altro
mi ero stupita perché non mi stava sull'anima e seguivo volentieri
le sue vicissitudini, che a tratti erano sinceramente appassionanti,
augurandomi che ogni cosa si risolvesse per il meglio.
Forse,
dico ora, con cattiveria, perché dei Ballantyne Craig è un parente
lontano, tanto che non ne porta neppure il cognome...
E...
Maledizione. Avevo detto che non sarei stata cattiva, oggi.
Sarà
per la prossima volta.
Quando
recensirò “Il dio del Fiume” o “Il Settimo Papiro”, magari.
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