IL
CAPPOTTO DI ASTRAKAN
di Piero Chiara
Tra
i romanzi di Chiara letti fino ad ora, questo è quello che ho
preferito.
Non
perché sia più bello degli altri, ma per la trama e per come è
costruita (iniziando in un modo e continuando in un altro), perché
denota immaginazione e una certa pruderie sconvolta e malatina, che
ho apprezzato.
Certo
il protagonista è sempre il solito maschio apparentemente perbene di
Chiara e in realtà un po’ bestia (almeno nei rapporti con l’altro
sesso), che sul momento fatico digerire e che, tuttavia, è così
“medio” che si deve accettare… Tanto più che, in fondo, non è
colpa degli uomini se la maggior parte di loro è dotata di un solo
neurone…
Ad
ogni modo, ecco la trama: anni 50, il nostro io narrante, sulla
trentina abbondante, si trasferisce in quel di Parigi per “migliorare
il suo francese”… Nell’ottica di risparmiare va a pensione da
una vedova in età, la signora Lenormand, che di fatto quasi lo
adotta, ospitandolo nella stanza del figlio… Il quale, reo di
essere fuggito all’estero con una donnina, a sua volta, somiglia
tantissimo al nostro fisicamente e per inclinazioni. Ancora di più
quando la donna comincia a prestare al protagonista i vestiti di
Maurice, il figlio, appunto, tra cui il fatidico cappotto di
astrakan.
Nel
frattempo il nostro frequenta Valentine, una graziosa (ma imperfetta)
vicina… che prima era fidanzata proprio con Maurice...
Solo
che Maurice non è esattamente fuggito all’estero con una donnina…
La
trama procede in maniera liquida, con placidità, tra riflessioni
intimistiche e speculazioni di natura filosofica o letteraria
(stimolanti e per nulla noiose, e che, anzi, hanno il pregio di
coinvolgerci subito), permeata dalla routine quotidiana, da una certa
confidenzialità che si instaura con il lettore, fino a che… non si
insinuano i primi sospetti e il romanzo prende il volo.
A
rendere l’opera interessante, oltre alla prosa garbata e
colloquiale di Chiara, il viluppo simil-giallo (no, non giallo,
semmai quasi da thriller), che ci sorprende verso la metà,
sconvolgendo le nostre aspettative (in termini positivi).
E
poi, verso la conclusione, l’aria di lago (Maggiore) e di paese,
che ci riporta, pur brevemente, ai fasti de “Il piatto piange”.
La fine, forse un po’ irrisolta, tuttavia non ci dispiace, e anche
se ci lascia in bocca un sapore un po’ amaro, ci induce ad un
sogghigno per l’avventura appena conclusa.
Che
è fantastica da raccontare…
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