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martedì 16 febbraio 2016

Non è colpa degli uomini se...

IL CAPPOTTO DI ASTRAKAN
di Piero Chiara


Tra i romanzi di Chiara letti fino ad ora, questo è quello che ho preferito.
Non perché sia più bello degli altri, ma per la trama e per come è costruita (iniziando in un modo e continuando in un altro), perché denota immaginazione e una certa pruderie sconvolta e malatina, che ho apprezzato.
Certo il protagonista è sempre il solito maschio apparentemente perbene di Chiara e in realtà un po’ bestia (almeno nei rapporti con l’altro sesso), che sul momento fatico digerire e che, tuttavia, è così “medio” che si deve accettare… Tanto più che, in fondo, non è colpa degli uomini se la maggior parte di loro è dotata di un solo neurone…
Ad ogni modo, ecco la trama: anni 50, il nostro io narrante, sulla trentina abbondante, si trasferisce in quel di Parigi per “migliorare il suo francese”… Nell’ottica di risparmiare va a pensione da una vedova in età, la signora Lenormand, che di fatto quasi lo adotta, ospitandolo nella stanza del figlio… Il quale, reo di essere fuggito all’estero con una donnina, a sua volta, somiglia tantissimo al nostro fisicamente e per inclinazioni. Ancora di più quando la donna comincia a prestare al protagonista i vestiti di Maurice, il figlio, appunto, tra cui il fatidico cappotto di astrakan.
Nel frattempo il nostro frequenta Valentine, una graziosa (ma imperfetta) vicina… che prima era fidanzata proprio con Maurice...
Solo che Maurice non è esattamente fuggito all’estero con una donnina…
La trama procede in maniera liquida, con placidità, tra riflessioni intimistiche e speculazioni di natura filosofica o letteraria (stimolanti e per nulla noiose, e che, anzi, hanno il pregio di coinvolgerci subito), permeata dalla routine quotidiana, da una certa confidenzialità che si instaura con il lettore, fino a che… non si insinuano i primi sospetti e il romanzo prende il volo.
A rendere l’opera interessante, oltre alla prosa garbata e colloquiale di Chiara, il viluppo simil-giallo (no, non giallo, semmai quasi da thriller), che ci sorprende verso la metà, sconvolgendo le nostre aspettative (in termini positivi).
E poi, verso la conclusione, l’aria di lago (Maggiore) e di paese, che ci riporta, pur brevemente, ai fasti de “Il piatto piange”. La fine, forse un po’ irrisolta, tuttavia non ci dispiace, e anche se ci lascia in bocca un sapore un po’ amaro, ci induce ad un sogghigno per l’avventura appena conclusa.

Che è fantastica da raccontare…

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