ROMANZO
CRIMINALE
di Giancarlo De Cataldo
E’
difficile legarsi ad un’opera in cui i personaggi, ispirati alla
realmente esistita banda della Magliana, sono necessariamente e
volutamente uno più repellente dell’altro, non solo in quanto
criminali, ma persino come persone: senza codice (sia pure un codice
criminale), senza riscatto, senza bellezza, pronti a tradirsi,
uccidersi, imbrogliarsi e diffamarsi persino tra loro, senza rimorsi,
come se fosse normale, se non quasi dovuto.
Il
Dandi, il Freddo, il Libanese, Trentadenari, il Secco, il Sorcio,
Patrizia, Scialoja…
In
effetti non riesco nemmeno a concepirli come uomini o donne fallaci o
sfortunati: troppo disgustosi. Vigliacchi, opportunisti, scellerati.
Anche
i “buoni”, che proprio buoni non sono, hanno una morale troppo
elastica e malleabile.
La
verità è che tutto il sistema è marcio, l’Italia intera, e
questo romanzo proprio non ci permette di dimenticarlo, anzi affonda
la sua essenza proprio nella melma più torbida e oscura. Eppure…
Eppure
– vuoi il taglio cinematografico, il ritmo, l’apprezzabile
realismo, l’abbondare dei dialoghi – il romanzo ipnotizza e le
vicissitudini – per quanto poco organiche e spezzettate – dei
protagonisti – peraltro caratterialmente abbozzati solo in
superficie – si seguono volentieri, a dispetto della ripugnanza, e
continuiamo fino all’ultimo a volerne sapere di più.
Storie
di morte, delinquenza, e sete di potere, quindi, ambientate a Roma
tra il 1977 e il 1992, che si intrecciano alle vicende storiche,
politiche e di costume del Bel Paese, spesso ripetendosi o
arrampicandosi su se stesse. Storie che danno il voltastomaco e
irritano, ma al contempo affascinano, forse per i motivi sbagliati.
Certo,
preferirei si evitasse il sottotesto della pseudo-mitizzazione (pare
quasi che l’autore ammiri questa feccia senza valori, fatta di fame
e di vuoto, che cerchi di renderne epiche le vicende attraverso
riferimenti alla letteratura greca, sottolineandone il successo e il
coraggio, laddove invece sono solo biechi figuri da condannare), ma
non posso negare che il romanzo sia interessante, magnetico, e
brutalmente veritiero (senza esagerare, però. Senza accenti
esageratamente sadici).
Aggiungiamoci
un capitolo introduttivo che spacca nella sua costruzione perfetta e
un montaggio rapido, alimentato da sequenze e battute, più che di
descrizioni, con qualche squarcio di malinconica, amara
consapevolezza, ad evidenziare la vacuità umana.
Credo
che leggerò anche il prequel, “Io sono il Libanese”…
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