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mercoledì 25 gennaio 2017

Il marcio dell'Italia

ROMANZO CRIMINALE
di Giancarlo De Cataldo


E’ difficile legarsi ad un’opera in cui i personaggi, ispirati alla realmente esistita banda della Magliana, sono necessariamente e volutamente uno più repellente dell’altro, non solo in quanto criminali, ma persino come persone: senza codice (sia pure un codice criminale), senza riscatto, senza bellezza, pronti a tradirsi, uccidersi, imbrogliarsi e diffamarsi persino tra loro, senza rimorsi, come se fosse normale, se non quasi dovuto.
Il Dandi, il Freddo, il Libanese, Trentadenari, il Secco, il Sorcio, Patrizia, Scialoja…
In effetti non riesco nemmeno a concepirli come uomini o donne fallaci o sfortunati: troppo disgustosi. Vigliacchi, opportunisti, scellerati.
Anche i “buoni”, che proprio buoni non sono, hanno una morale troppo elastica e malleabile.
La verità è che tutto il sistema è marcio, l’Italia intera, e questo romanzo proprio non ci permette di dimenticarlo, anzi affonda la sua essenza proprio nella melma più torbida e oscura. Eppure…
Eppure – vuoi il taglio cinematografico, il ritmo, l’apprezzabile realismo, l’abbondare dei dialoghi – il romanzo ipnotizza e le vicissitudini – per quanto poco organiche e spezzettate – dei protagonisti – peraltro caratterialmente abbozzati solo in superficie – si seguono volentieri, a dispetto della ripugnanza, e continuiamo fino all’ultimo a volerne sapere di più.
Storie di morte, delinquenza, e sete di potere, quindi, ambientate a Roma tra il 1977 e il 1992, che si intrecciano alle vicende storiche, politiche e di costume del Bel Paese, spesso ripetendosi o arrampicandosi su se stesse. Storie che danno il voltastomaco e irritano, ma al contempo affascinano, forse per i motivi sbagliati.
Certo, preferirei si evitasse il sottotesto della pseudo-mitizzazione (pare quasi che l’autore ammiri questa feccia senza valori, fatta di fame e di vuoto, che cerchi di renderne epiche le vicende attraverso riferimenti alla letteratura greca, sottolineandone il successo e il coraggio, laddove invece sono solo biechi figuri da condannare), ma non posso negare che il romanzo sia interessante, magnetico, e brutalmente veritiero (senza esagerare, però. Senza accenti esageratamente sadici).
Aggiungiamoci un capitolo introduttivo che spacca nella sua costruzione perfetta e un montaggio rapido, alimentato da sequenze e battute, più che di descrizioni, con qualche squarcio di malinconica, amara consapevolezza, ad evidenziare la vacuità umana.

Credo che leggerò anche il prequel, “Io sono il Libanese”…

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