IL
LIBRAIO DI KABUL
di Asne Seierstad
Un
po' romanzo, un po' reportage, questa storia (vera, con i nomi
cambiati) ruota attorno alla famiglia del libraio Sultan Khan,
comprensiva di due mogli, prole e parenti vari, di cui penetriamo la
quotidianità, ante – durante – post Talebani.
Ovviamente
la prima emozione che suscita è rabbia.
Per
la condizione della donna, soprattutto, ma anche per l'arretratezza
culturale, per il fanatismo, per l'ingiustizia...
Per
questo imbecille di libraio, egoista e retrogrado, che opprime
l'intera famiglia (essendone il capo), benché ogni membro in modi
diversi e sempre in accordo con le “regole dell'Islam”... E non
ci importa del suo amore per la carta stampata, non ci basta a
perdonarlo: tra l'altro lui ama solo l'oggetto, strumento per
arricchirsi, non la cultura o l'emozione di cui il libro è veicolo!
Il
romanzo, tuttavia, è molto bello.
Vanta
una prosa piana e lineare, pregna d'atmosfera e solidarietà, che non
punta il dito, ma lancia frecciatine, sia pur con garbata educazione,
e coinvolge da subito, sprofondandoci in un'atmosfera che riesce a
non essere dolente, ma intessuta di affascinato stupore quanto di
velato rimprovero, tesa a raccontare, a descrivere, ma anche a
partecipare, sia pur silenziosamente, di quel che accade.
E
di cose ne accadono un mucchio, scorrendo attraverso ogni giorno,
frammiste a contestualizzazioni che ci consentono di coglierle in
ogni sfumatura, permettendoci di concentrarci (e di conoscere) di
volta in volta un personaggio diverso, di cui assumiamo la
prospettiva... Personaggio che non può che interagire con gli
altri, ma offrendoci spicchi di realtà peculiari e personali. E
partendo dall'individuo, finiamo col caratterizzare il popolo, il
costume, il modus vivendi di un mondo e di un'epoca.
Di
norma il lieto fine è negato, al più possiamo sopportare e
accettare il nostro destino...
Eppure,
parrà strano, ma spesso la lettura è piena di bellezza, di forza e
dignità, che comunque riesce ad intrattenere, se si decide di
ignorarne le implicazioni... Che serve per vedere, per capire, ma
talvolta, anche solo per ascoltare e cedere languidamente ai meandri
della narrazione, al piacere del racconto.
Il
paragone più ovvio è con “Mille splendidi soli” di Khaled
Hosseini: ma a mio avviso “Il libraio di Kabul” vince. Più
autentico, più sentito, e senza quella odiosa patinatura da Best
Seller.
Nessun commento:
Posta un commento