IERI
di Agota Kristof
La
storia è un po' inconsistente, un po' vaga, e, se pure lo
intrattiene e fa restare col fiato sospeso, non porta il lettore a
sanguinare, come invece la Kristof riesce a fare in altre sue opere,
e, in particolare, ne la “Trilogia della città di K.” (con cui
“Ieri” spartisce numerose similitudini, anche a livello di
trama).
Il
racconto stupisce, ipnotizza, se ci si riesce a sintonizzare, ha
persino i suoi momenti di lirica, asciutta, bellezza, ma manca il
coinvolgimento emotivo. Il brivido c'è, è denso, brulicante, ma
resta sulla superficie, ci incuriosisce, ma non avvince. E poi, una
volta superata l'ultima pagina, non ci lascia granché, nemmeno una
cicatrice.
Tuttavia
si legge volentieri: il libro è breve, incisivo, e pare quasi un
compendio de “Il grande quaderno” e dei suoi seguiti, sebbene non
sia ugualmente potente e vibrante.
Senza
dubbio si tratta di ottima prosa, di cui gustiamo ogni frase, ogni
suggestione, ma che non ci illumina, se non a sprazzi, né
abbruttisce, come una poesia in cui non sia stato rubato del fuoco,
ma solo una fiamma di luce.
Eppure,
dopo un po', abbiamo bisogno di tornare a qualcosa del genere, ad
un'altra doccia fredda, fatta di lucidità e alienazione, ad un'altra
opera della Kristof...
Perché,
anche quando è in tono minore, ci piace il magnetismo disperato e
dolente che promana, l'ineluttabilità che ci induce a respirare e
che offre solo soluzioni estreme, che spesso non sono soluzioni ma la
morte stessa della speranza.
Il
suo incedere è disturbante, malsano, ma ci irretisce... E alla fine,
se siamo abbastanza disturbati e malsani anche noi, ne vogliamo
ancora. Ancora. Ancora.
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