UN SACCHETTO DI BIGLIE
di Joseph Joffo
Ossia il racconto di come all'autore, ebreo di dieci anni nella Francia occupata della Seconda Guerra Mondiale, in fuga con il fratellino più grande di due anni, sia stata rubata l'infanzia.
Un romanzo dolce, autobiografico, più leggero e delicato di quel che si potrebbe pensare dato l'argomento, purtroppo gravato da una scrittura mediocre, pur rischiarata da qualche acuta osservazione e da diversi passaggi felici.
Il ritmo, però, manca, né è sufficiente l'introspezione: i personaggi appaiono a mala pena abbozzati, privi di profondità, di carattere.
Egualmente la vicenda è originale e propone un punto di vista diverso dal solito, peccato che ciò si si traduca nel resoconto piatto di una storia molto bella. A sprazzi la forza della trama riesce comunque ad emergere e ad avere il sopravvento (la scena del curato all'Excelsior, ad esempio), ma nel complesso l'opera si mantiene su un piano superficiale, evanescente. Più che alimentata dal desiderio di narrare, infatti, sembra un percorso autoterapico (e in parte lo è) volto esclusivamente a smaltire quanto si è stati costretti a vivere, a buttare fuori il veleno.
Certo, di indubbia potenza è l'immagine dell'infanzia rubata, per la dose massiccia di verità in essa contenuta. Per la sua ingiusta crudezza per quanto, in fin dei conti, possiamo dire che a Joseph e famiglia sia andata abbastanza bene, date le circostanze.
I piccoli protagonisti, così ardimentosi e tenaci, ci piacciono parecchio, eppure non arriviamo ad amarli, perché, anche se li accompagniamo per un bel pezzo di strada, non ci sembra di conoscerli e, di fatto, potrebbero essere due bambini in gamba qualunque costretti a destreggiarsi in circostanze fuori dall'ordinario.
La scrittura è semplice, ma poco stimolante, a tratti mi pareva di addormentarmici dentro.
In sintesi, a salvare il romanzo dall'oblio l'importanza della trama e della vicenda storica che la supporta.
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