LA
CANTATRICE CALVA
di Eugène Ionesco
Dicesi
“Teatro dell'Assurdo”.
E
assurdo lo è davvero e senza confini, tra non-sense, dialoghi
surreali (e deliziosi) e situazioni che non possiamo nemmeno
affermare ci sfuggano di mano, perché, semplicemente, in mano non ci
stanno. Non stanno da nessuna parte!
L'opera
si legge in un istante, non solo perché è brevissima, ma perché ci
rallegra e ci incuriosisce. E non ci basta mai.
Eppure,
anche se non capiamo, non seguiamo, e ci sentiamo ribaltati in un
modo di logica metafisica (o nessuna logica) non ci sentiamo
irritare. Un po' perché lo sappiamo, capire non è sempre
importante. Un po' perché tutto si combina ad arte, senza esagerare.
O esagerando a tal punto che la “Cantatrice” diviene un mondo a
sé e sentiamo di poterlo accettare così: rilassandoci e facendoci
quattro risate.
Ma
anche sentendoci solleticare qualcosa dentro, qualcosa di cerebrale,
sotto pelle, di pruriginoso, che ci stuzzica in modo insolito e
meraviglioso. E ci mette un po' a disagio, anche.
I
protagonisti sono sei (e sono sostanzialmente intercambiabili) i
coniugi Smith, i coniugi Martin, la cameriera e il capitano dei
pompieri.
Sono
i tipici borghesi, non hanno alcuna ragione d'essere, alcun senso, né
tanto meno riescono a trovarlo: benché abbiamo un sacco di
informazioni su di loro ci sembrano più un cumulo di abitudini che
delle persone, lì fermi, cristallizzati nella routine.
E
assolutamente normali, banali, ovvi.
Una
casa normale, una famiglia normale, persone normali.
Stereotipi.
Come
tali divengono allora metafora della condizione umana: umanità che
agisce per forza di inerzia, in balia delle convenzioni, senza capire
bene perché, priva di significato o di scopo.
Che
parla tanto, ma di banalità, e di fatto non riesce a comunicare, a
incontrarsi, nemmeno quando si è tutti lì, nella stessa stanza.
Dissacrante.
Da
le leggere, più che da raccontare.
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