ADDIO
ALLE ARMI
di Ernest Hemingway
Ne
ho discusso di recente con un mio amico, concludendo con un: “Se
non ti garba il finale, è perché hai sbagliato lettura. Dovevi
sceglierti un Harmony.”
Lo
penso davvero, più che altro perché è proprio la fine che salva
questo romanzo dall'essere solo un buon libro (ben scritto) di amore
è di guerra. Perché la fine non è frutto del gratuito sadismo di
Hemingway nei nostri confronti, ma conferisce al libro il suo
paradigma, la sua profondità, che, per l'appunto, va oltre la
classica storia sui due temi in questione, benché gli stessi siano
preponderanti.
Siamo
in Italia, I° Guerra Mondiale, le vicende narrate ruotano attorno
alla battaglia di Caporetto, da sempre sinonimo di disfatta. Il
romanzo, parzialmente autobiografico, racconta l'esperienza di
Frederic Henry, volontario americano, che si scontra con la realtà.
La guerra gli sembrava qualcosa di eroico, di romantico e
significativo, per questo si è arruolato, ma ora si rende conto che
è sostanzialmente un'illusione, vuota, senza scopo, e con troppo
sangue e troppo dolore. Siamo moralmente abbattuti, mentalmente
stanchi e l'antimilitarismo impera.
Però
non tutto è perduto, perché Frederic incontra l'amore nella persona
della bellissima infermiera volontaria Catherine Barkley, che lo
ricambia.
Ci
sono difficoltà, ricongiungimenti, diserzioni, morti (stupide),
fughe... ma ci si ritrova, si è felici, e tutto va bene. Più o
meno. Fino a che...
Ma
è qui che sta il punto. Perché il succo, io credo, è che
un'illusione non può rimpiazzarne un'altra, e che l'uomo, incapace
di autodeterminarsi veramente e sino in fondo, è destinato a veder i
suoi sogni infrangersi.
E'
una prospettiva triste, ma condivisibile, soprattutto nel periodo
in cui Hemingway scrive (lo stesso de “Il grande Gatsby”,
suppergiù), in cui si avverte la perdita dei valori tradizionali, ma
non si sa con che cosa sostituirli.
Nel
complesso, comunque, il romanzo si legge volentieri: l'atmosfera non
è triste, più sul disincantato, direi, e ci sono momenti di letizia
ed altri di tensione. Prevalgono le parti dialogiche, molto naturali
(benché a tratti un po' insistite e ripetitive), e anche se lo stile
non è quello impeccabile ed essenziale de “Il vecchio e il mare”
(trattasi di un'opera giovanile), è pur sempre pregevole, lineare e
asciutto.
La
storia è interessante e scivola via in fretta, permettendoci subito
di immedesimarci nel protagonista e nell'ambiente in cui si muove,
che viene creato in poche righe, dal nulla, ma con un'accuratezza
estrema e quasi tattile.
L'elemento
più bello, però, è costituito dall'introduzione, dello stesso
Hemingway: fresca e densa di bellezza, in cui chiunque ami scrivere
non potrà non riconoscere una parte di se stesso. Perché è vero,
mentre scrivi niente altro conta, e il fatto che la storia che
racconti sia tragica di per sé è del tutto irrilevante.
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