MAUS
Levi
l’ha chiesto per primo, “Se
questo è un uomo”,
ma Art Spiegelman ce lo ha mostrato: no, non lo è. Ma non lo sono
neppure i suoi carnefici. O i suoi delatori. O...
E’
questo, credo, uno dei motivi per cui nella sua personalissima e
autobiografica ricostruzione dell’Olocausto non ci sono persone, ma
solo animali antropomorfi.
All'epoca
per le persone non c'era spazio.
Gli
ebrei sono topi, deboli, indifesi, i tedeschi gatti e spesso il loro
ghigno felino è terrorizzante… Quindi la situazione è chiara.
Ed
è chiaro che questo è un fumetto, non un romanzo o un saggio. Ma ha
vinto il Pulitzer ed è un capolavoro (lo preciso per quei poveri di
spirito che ancora identificano il fumetto come robetta per bambini e
non come la Nona Arte).
La
storia (scritta
tra il 1973 e il 1991) è
ripartita su due piani che si alternano: le vicende del padre
dell’autore, Vladek, ebreo sfuggito al campo di concentramento, e
l'analisi del rapporto che Artie, fumettista deciso a documentare
l'esperienza del genitore attraverso la graphic novel, ha con il
padre.
La
storia è intensa e commovente, ma non fa leva sul sensazionalismo e
non c'è nulla di eclatante (o lo è tutto, a seconda del punto di
vista). E' accurata, semplice. Onesta.
In
un certo senso a Vladek è andata bene... Intendiamoci, bene per come
poteva andare ai tempi: ha perso un figlio, i familiari, i parenti
della moglie... Ha assistito a cose terribili, e affrontato
umiliazioni, paura, sofferenze... Ma è riuscito a fuggire con la
moglie, Anja, a rifarsi una vita in America, ad avere un altro
figlio... E anche quando Anja si è suicidata (Artie aveva
vent'anni), Vladek si è risposato con Mala “anche
lei una scampata come quasi tutti gli amici dei miei”.
Ma
Vladek e Mala non vanno d'accordo, anzi Vladek non va d'accordo con
nessuno, meno che mai con Artie. Si vogliono bene, questo è
evidente, ma non riescono a comunicare, ed ognuno di loro vive nel
senso di colpa: il padre per essere sopravvissuto (anche se “in
un certo senso non è sopravvissuto”),
il figlio per aver aver avuto una vita più facile di quella dei
genitori.
Un
confronto autentico e doloroso, che non si risolve, che amareggia
entrambi, ma che resta lì, autoalimentandosi.
E
poi c'è l'altra vicenda, quella più grande, quella storica...
Vladek
è polacco, quindi in principio il Nazismo arriva solo attraverso
echi d'allarme, ma progressivamente, un passo alla volta, la
situazione peggiora e agli ebrei viene tolto quello che ogni volta
sembra tutto, per scoprire che invece Hitler può portargli via
ancora di più. Si comincia con la serenità, per continuare con i
beni materiali, e poi di seguito fino agli affetti e i diritti più
importanti, che noi diamo per scontati. Per accorgersi che non basta,
non basta mai. E' sufficiente che ti mettano il timbro sbagliato, o
nessun timbro, per stabilire che devi morire. “Più
che altro presero bimbi... anche di 2 o 3 anni”, ricorda
ad un tratto Vladek con il suo inglese un po' sgrammaticato,
“Molti bimbi urlavano. Non riuscivano a smettere. Così tedeschi li
sbattevano contro il muro. E loro non gridarono mai più.”
Bisogna
lottare per vivere, e arrivano tradimenti, anche da parte di altri
ebrei, ma anche atti di solidarietà e di altruismo. Spesso, però,
la logica cambia e non è più quella umana: “Ma
non ti avrebbero aiutato se non fossi stato in grado di pagare?
Insomma, eravate parenti...”
obietta Artie dinanzi a certe testimonianze. Ma Vladek si stizzisce:
“Mah! Tu non
capisci... Allora non c'era più famiglia. Ognuno per sé, capito?”
Finché
non si arriva all'inevitabile e si è costretti ad affrontarlo.
L'autore
rimpicciolisce dinanzi all'enormità della vicenda (letteralmente,
sfruttando il linguaggio del fumetto in tutte le sue potenzialità),
ed ha un sacco di dubbi, di esitazioni: è intimorito, si sente
inadeguato.
“Il
mio libro! Ah! Che libro? Una parte di me non vuole pensare e
disegnare di Auschwitz. Non lo VISUALIZZO con chiarezza, e non so
COMINCIARE a immaginare com'era davvero.” racconta
Artie a Pavel, il suo analista. Un ebreo ceco, un sopravvissuto di
Terezin e Auschwitz.
“Com'era
Auschwitz? Hmm... come spiegarlo?” riflette
Pavel. E poi all'improvviso urla: “BUU!”
mentre
Artie, salta sulla poltrona, spaventato.
“Era
un po' così” spiega
Pavel. “Ma
SEMPRE! Dalla parte dei cancelli alla fine di tutto.”
Ma
Spiegelman ci riesce, ce lo mostra: le immagini saranno pure
stilizzate, ma efficacissime a rappresentare la sofferenza. A
rappresentare tutto.
Insomma,
siamo dinanzi ad un capolavoro.
Sull'Olocausto
è stato già detta ogni cosa, ma mai con tanta espressività,
eloquenza, intimismo. Mai attraverso un fumetto.
E
forse vale la pena chiederselo ancora una volta: perché non ci sono
uomini, ma solo animali antropomorfi? Credo che le ragioni siano
svariate, e magari nemmeno tutte ad un livello consapevole... Certo,
così sono più incisive, simboliche, immediate. Ma a rifletterci...
Verso la fine, mentre Artie si confronta con i giornalisti dopo la
pubblicazione di parte del suo lavoro, tutti indossano una maschera
animale, mentre sotto si intravedono fattezze umane. Per il resto
della narrazione i volti sono animali, senza maschere. Quindi deduco
(ma è solo un'ipotesi) che gli animali antropomorfi in un qualche
modo rappresentino le etichette che durante il periodo Nazista
venivano appiccicate alle persone: perché non eri più un individuo
unico e irripetibile, ma ti identificavi e ti esaurivi
nell'appartenenza ad una razza. Non eri più un uomo, ma solo
un'etichetta, appunto: un topo o un gatto, a seconda.
Spersonalizzato.
Un
libro notevole.
Da
leggere, assolutamente.
Che
amiate le graphic novel oppure no.
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