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domenica 21 aprile 2013

Molti bimbi urlavano. Non riuscivano a smettere...


MAUS
Levi l’ha chiesto per primo, “Se questo è un uomo”, ma Art Spiegelman ce lo ha mostrato: no, non lo è. Ma non lo sono neppure i suoi carnefici. O i suoi delatori. O...
E’ questo, credo, uno dei motivi per cui nella sua personalissima e autobiografica ricostruzione dell’Olocausto non ci sono persone, ma solo animali antropomorfi.
All'epoca per le persone non c'era spazio.
Gli ebrei sono topi, deboli, indifesi, i tedeschi gatti e spesso il loro ghigno felino è terrorizzante… Quindi la situazione è chiara.
Ed è chiaro che questo è un fumetto, non un romanzo o un saggio. Ma ha vinto il Pulitzer ed è un capolavoro (lo preciso per quei poveri di spirito che ancora identificano il fumetto come robetta per bambini e non come la Nona Arte).
La storia (scritta tra il 1973 e il 1991) è ripartita su due piani che si alternano: le vicende del padre dell’autore, Vladek, ebreo sfuggito al campo di concentramento, e l'analisi del rapporto che Artie, fumettista deciso a documentare l'esperienza del genitore attraverso la graphic novel, ha con il padre.
La storia è intensa e commovente, ma non fa leva sul sensazionalismo e non c'è nulla di eclatante (o lo è tutto, a seconda del punto di vista). E' accurata, semplice. Onesta.
In un certo senso a Vladek è andata bene... Intendiamoci, bene per come poteva andare ai tempi: ha perso un figlio, i familiari, i parenti della moglie... Ha assistito a cose terribili, e affrontato umiliazioni, paura, sofferenze... Ma è riuscito a fuggire con la moglie, Anja, a rifarsi una vita in America, ad avere un altro figlio... E anche quando Anja si è suicidata (Artie aveva vent'anni), Vladek si è risposato con Mala “anche lei una scampata come quasi tutti gli amici dei miei”.
Ma Vladek e Mala non vanno d'accordo, anzi Vladek non va d'accordo con nessuno, meno che mai con Artie. Si vogliono bene, questo è evidente, ma non riescono a comunicare, ed ognuno di loro vive nel senso di colpa: il padre per essere sopravvissuto (anche se “in un certo senso non è sopravvissuto”), il figlio per aver aver avuto una vita più facile di quella dei genitori.
Un confronto autentico e doloroso, che non si risolve, che amareggia entrambi, ma che resta lì, autoalimentandosi.
E poi c'è l'altra vicenda, quella più grande, quella storica...
Vladek è polacco, quindi in principio il Nazismo arriva solo attraverso echi d'allarme, ma progressivamente, un passo alla volta, la situazione peggiora e agli ebrei viene tolto quello che ogni volta sembra tutto, per scoprire che invece Hitler può portargli via ancora di più. Si comincia con la serenità, per continuare con i beni materiali, e poi di seguito fino agli affetti e i diritti più importanti, che noi diamo per scontati. Per accorgersi che non basta, non basta mai. E' sufficiente che ti mettano il timbro sbagliato, o nessun timbro, per stabilire che devi morire. “Più che altro presero bimbi... anche di 2 o 3 anni”, ricorda ad un tratto Vladek con il suo inglese un po' sgrammaticato, “Molti bimbi urlavano. Non riuscivano a smettere. Così tedeschi li sbattevano contro il muro. E loro non gridarono mai più.”

Bisogna lottare per vivere, e arrivano tradimenti, anche da parte di altri ebrei, ma anche atti di solidarietà e di altruismo. Spesso, però, la logica cambia e non è più quella umana: “Ma non ti avrebbero aiutato se non fossi stato in grado di pagare? Insomma, eravate parenti...” obietta Artie dinanzi a certe testimonianze. Ma Vladek si stizzisce: “Mah! Tu non capisci... Allora non c'era più famiglia. Ognuno per sé, capito?”
Finché non si arriva all'inevitabile e si è costretti ad affrontarlo.
L'autore rimpicciolisce dinanzi all'enormità della vicenda (letteralmente, sfruttando il linguaggio del fumetto in tutte le sue potenzialità), ed ha un sacco di dubbi, di esitazioni: è intimorito, si sente inadeguato.
Il mio libro! Ah! Che libro? Una parte di me non vuole pensare e disegnare di Auschwitz. Non lo VISUALIZZO con chiarezza, e non so COMINCIARE a immaginare com'era davvero.” racconta Artie a Pavel, il suo analista. Un ebreo ceco, un sopravvissuto di Terezin e Auschwitz.
Com'era Auschwitz? Hmm... come spiegarlo?” riflette Pavel. E poi all'improvviso urla: BUU!mentre Artie, salta sulla poltrona, spaventato.
Era un po' così” spiega Pavel. “Ma SEMPRE! Dalla parte dei cancelli alla fine di tutto.”
Ma Spiegelman ci riesce, ce lo mostra: le immagini saranno pure stilizzate, ma efficacissime a rappresentare la sofferenza. A rappresentare tutto.
Insomma, siamo dinanzi ad un capolavoro.
Sull'Olocausto è stato già detta ogni cosa, ma mai con tanta espressività, eloquenza, intimismo. Mai attraverso un fumetto.
E forse vale la pena chiederselo ancora una volta: perché non ci sono uomini, ma solo animali antropomorfi? Credo che le ragioni siano svariate, e magari nemmeno tutte ad un livello consapevole... Certo, così sono più incisive, simboliche, immediate. Ma a rifletterci... Verso la fine, mentre Artie si confronta con i giornalisti dopo la pubblicazione di parte del suo lavoro, tutti indossano una maschera animale, mentre sotto si intravedono fattezze umane. Per il resto della narrazione i volti sono animali, senza maschere. Quindi deduco (ma è solo un'ipotesi) che gli animali antropomorfi in un qualche modo rappresentino le etichette che durante il periodo Nazista venivano appiccicate alle persone: perché non eri più un individuo unico e irripetibile, ma ti identificavi e ti esaurivi nell'appartenenza ad una razza. Non eri più un uomo, ma solo un'etichetta, appunto: un topo o un gatto, a seconda. Spersonalizzato.
Un libro notevole.
Da leggere, assolutamente.
Che amiate le graphic novel oppure no.

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