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mercoledì 26 giugno 2013

L’illuminazione facendo zapping in Tv...


HUNGER GAMES
di Suzanne Collins

vs.

BATTLE ROYALE
di Koushun Takami

(romanzi)



Ho finito leggere la trilogia della Collins e il romanzo di Takami la settimana scorsa, ma prima di pronunciarmi in proposito ho preferito che il tutto si sedimentasse un po’…

Entrambi parlano di adolescenti, maschi e femmine in egual numero e da un numero contrassegnati, costretti da un regime totalitario ad uccidersi a vicenda in uno spazio circoscritto (isola o arena), fino a che ne resterà solo uno, che, almeno in teoria, sarà libero di godersi la vita e i privilegi che gli deriveranno dalla vittoria…

Battle Royale è uscito anni prima.
 
 
Dunque, in definitiva, la domanda è: si può davvero affermare che la Collins lo abbia copiato?

Lei sostiene di aver avuto l’illuminazione facendo zapping in Tv, tra reality e scene di guerra, ed in effetti lo trovo plausibile: per quanto l’idea di base sia geniale, in effetti, non serve un genio per concepirla…

E’ innegabile, però, che lo spunto delle due opere sia pressoché identico, sebbene queste risultino completamente diverse per atmosfere e per sviluppo. E alla fine anche “Il Signore delle Mosche” di W. Golding è simile, e sotto altri aspetti anche “La lunga Marcia” e “L’uomo in fuga” di S. King, o “1984” di G. Orwell.

Certo, di primo acchito Hunger Games può davvero sembrare la versione hollywoodiana di Battle Royale: un'americanizzazione del gusto giapponese, opportunamente ammorbidito, a cui viene apportata qualche variazione… ma non lo è. Non solo. Con tutto che, anche se fosse, che importa?

Sono entrambi degni di interesse.

Battle Royale è decisamente più crudo e più freddo: mentre lo leggi avverti un senso di malessere crescerti dentro, un’oppressione da cui non riesci a liberarti, specie nelle prime pagine. Le morti sono descritte una ad una, dettagliatamente, nelle loro dinamiche e motivazioni, mai date per avvenute in lontananza, mai semplicemente evocate con uno sparo di cannone, ma non fini a se stesse o al gusto dello splatter.

Possono sembrarlo, ma soprattutto sono una rappresentazione delle possibili reazioni umane, di cui offrono un esempio per ogni carattere e sentimento. Pura vertigine, pura spersonalizzazione, talvolta con tocchi di ambiguità.

Questo romanzo mi ha reso nervosa, irritabile. Dovevo interrompermi di continuo per respirare e poter continuare a leggere, soprattutto all’inizio. Allo stesso tempo mi ha incuriosita: è qualcosa di totalmente nuovo, di aberrante. Ti affascina nella sua lucida e chirurgica esattezza (peraltro, nel prosieguo, acquista toni più umani).

Il regime descritto è totalitario, come in Hunger Games, ma in modo più brutale, meno sottile.

Nel libro della Collins i giochi vengono fatti passare per spettacolo – sebbene tutti siano consci che corrispondano ad una punizione e ad un deterrente per chi vi è coinvolto – i tributi (i concorrenti) vengono sfamati e agghindati, intervistati e venerati, addestrati e coccolati (anche se...), mentre in Battle Royale la faccenda è chiara: si tratta di un programma di guerra e i ragazzi vengono semplicemente strappati alla loro vita. Sono carne da macello, nulla più, e come tali vengono trattati.

Se i genitori o gli insegnanti, una volta informati, si oppongono, vengono massacrati senza tante cerimonie. La violenza non resta sullo sfondo, viene sviscerata e indagata da ogni angolazione.

Per giunta la situazione è ancora più crudele se si pensa che coinvolge intere classi di studenti delle medie: in linea di massima più giovani e, soprattutto, legati fra loro da affetto e amicizia.

Lo spettacolo non viene diffuso in Tv, serve semmai per elaborare piani di guerra e statistiche, per il gusto della sperimentazione sadica. Solo il nome del vincitore viene rivelato. Spesso dopo che è uscito di testa. Pare che sia impossibile, quindi, non perdere se stessi...

Non solo! Hunger Games riguarda un futuro abbastanza lontano e distopico, con interessanti trovate fantascientifiche in fatto di genetica, di ambientazioni, e persino di moda.

Battle Royale è il presente, è l’oggi, senza fronzoli, senza orpelli.

Atterrisce, questo.

Hunger Games, nonostante le tematiche simili e la tensione emotiva che lo pervade, ti accompagna attraverso la voce di Katniss, la protagonista, intensa e sensibile, ma forte, determinata, positiva. Un’eroina. Un simbolo. Fai tue le sue paure, ti immedesimi, ti ci aggrappi. Man mano prosegui nella trama, il suo carattere si fa più sfumato, più interessante, acquista spessore e motivazioni. La trama stessa passa da “videogame su carta” alla storia di una rivoluzione. Si evolve, matura, si complica.
 


La sua dimensione è più umana, più lineare, multiforme, e concede sempre una speranza, un barlume di felicità, o di bellezza, o di incanto.

In Battle Royale, anche i sentimenti positivi vengono strumentalizzati per rappresentare l’orrore. Per esasperarlo. Ci sono personaggi buoni, che riescono a non corrompersi, o a non essere governati solo dalla paura, ma sono meno carismatici di Katniss, e soprattutto il processo di immedesimazione non è immediato. Il tuo malessere non viene riscattato.

In Hunger Games, alla fin fine, ti senti coinvolto, appassionato, ma non sull’orlo del baratro, e la sensazione, se si vuole, è inversa: fatichi a staccarti dalla lettura, ti affezioni ai personaggi, e le prospettive, in generale, sono più rosee, più liete.

La violenza rimane in secondo piano, è meramente funzionale, e c’è sempre qualcuno a cui tornare, per cui lottare: Katniss e Peeta mettono alla prova se stessi, ma vengono aiutati da tante persone, scoprono solidarietà, amicizia… E li scopre anche il lettore.

Si va al di là della mera sopravvivenza e si lotta anche per altre ragioni, tanto che si è disposti al sacrificio e spesso lo si sceglie.

Si resta fedeli a se stessi, ed anzi si migliora. Si cresce. Si analizza ciò che si deve affrontare e ci si mantiene saldi alla propria umanità, al contempo esprimendo il proprio rifiuto per la vicenda in cui si è stati forzosamente collocati e che si sente come ingiusta e spietata.

E comunque i giochi non sono, come nel romanzo giapponese, l'intero mondo narrativo, ma solo la partenza, la base.

Hunger Games è più avventura e più melodramma.

Meno splatter.

E reca in sé una molteplicità di confronti (la frivolezza con la necessità, il lusso con la miseria, lo spreco con la fame), di denunce (il potere manipolazione dei Mass Media, la spettacolarizzazione della violenza), di toni, di accenti, di sotto trame… E’ più soft, più ottimista.

Per vincere i Giochi non bisogna tanto essere forti, quanto piacere al pubblico.

Battle Royale è più di impatto, più forte, più disperato.

C’è sempre un velo di diffidenza, verso chiunque.

Un sistema avvelenato e avvelenante, che porta alla follia e snatura l’uomo (che qui è solo un ragazzino/a), lo spersonalizza, mettendo in crisi i suoi valori, rivelandone l’inciviltà, la ferocia, e gli istinti più bassi.

Non ti esalta, ti annichilisce.

E ti agghiaccia.

Solo per adulti.



Anche se… sul finale alcuni concetti si ribaltano.

Non entro nel dettaglio ed evito spoiler, però mentre la trilogia della Collins si tinge di desolazione e cupezza, Battle Royale, nel suo epilogo, ci permette di intravedere la luce e ci riscalda.


Ad ogni modo, per tornare al punto di inizio: no, la Collins non ha copiato Battle Royale. Al massimo può esservisi ispirata e c’è comunque dell’originalità nel suo lavoro… E poi, di nuovo chiedo: davvero importa?

Ho letto con piacere entrambe le opere e sono contenta che ci siano tutte e due perché mi hanno intrattenuto in modi opposti e quasi complementari, regalandomi emozioni totalmente diverse.

La verità è che a leggerli in contemporanea, i romanzi moltiplicano pregi e motivi di riflessione, stemperando i reciproci difetti.

Semplicemente, consiglio entrambe le opere.

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