LA
LUNGA MARCIA
di
Stephen King
(Richard Bachman)
Scritto
nel 1979, ma di un'attualità spaventosa (anticipatrice del desolante
fenomeno dei reality show), è ambientato in una versione alternativa
e tirannica degli Usa.
Narra
di cento ragazzi che partecipano ad una competizione annuale, la
lunga marcia, in cui potrà esserci un solo vincitore.
Gli
altri dovranno morire.
Eliminati,
abbattuti, uccisi.
Durante
la marcia, infatti, non ci si può fermare, non si può rallentare,
non si ha diritto a pause... Nemmeno per mangiare o dormire.
Una
marcia sporca di sangue, quindi, di lacrime, di dolore. Ma anche di
sogni, di desideri, di ambizioni. Perché chi vince riceverà il
Premio e potrà realizzare qualunque cosa, anche se, alla fin fine,
mentre sei lì, mentre cammini e le suole ti si sono consumate, e hai
la pelle abrasa, i muscoli a pezzi e male ovunque... Alla fin fine,
davvero è importante il Premio?
La
trama è bella, travolgente, sorretta da uno stile rapido e
incalzante, ma ancora più belli sono i personaggi, magistralmente
analizzati a livello psicologico, che, letteralmente, ti prendono
l'anima (Ray Garraty, il protagonista, Stebbins, ma soprattutto Peter
McVries, il mio preferito, ma anche tutti gli altri) e i bellissimi
legami che, pur nell'arco di poco tempo, si creano fra loro e che ci
lacerano per la consapevolezza che quasi tutti – così splendidi,
così vivi – a breve dovranno crepare.
In
modo crudo, disumano, per la gioia famelica del pubblico.
Il
gusto di mettersi alla prova oltre ogni limite, semplice parabola
della sopravvivenza, o metafora della vita?
Tutto
questo.
Ogni
concorrente ha i suoi motivi, i suoi scopi per essere qui. Perché i
partecipanti non vengono obbligati.
Sono
volontari.
E
se si stanno sfidando in questa gara assurda, corteggiando la morte,
è perché lo hanno scelto.
Finale
soggetto a più interpretazioni.
Nessun commento:
Posta un commento