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mercoledì 19 marzo 2014

Disperatamente nerd


DYLAN DOG
di Tiziano Sclavi

Un fumetto che ho amato molto, nella stessa misura in cui poi mi ha delusa. L'ho scoperto (grazie a Dany) prima che diventasse un fenomeno di costume, quando a dirsi suoi fan eravamo in pochi, e l'ho adorato in modo così disperatamente nerd che al Liceo conoscevo tutti gli albi a memoria, in ogni battuta, dato tecnico, sfumatura. In effetti all'epoca ero nota per questa mia passione malata, tanto che, benché in gioventù fossi la classica studentessa che, malgrado se stessa, tenta ad ogni costo di confondersi con la tappezzeria, venivo quasi quotidianamente sfidata a chi ne sapeva di più da compagni più grandi (quelli che quando era uscito il numero uno – nell'ottobre 1986 – erano alle Medie e non alle elementari, e che per questo si sentivano “più fan” di me). Naturalmente vincevo sempre io, e di solito qualche mio compagno di classe (e si badi, non è che avessi un rapporto idilliaco con loro) gridava dietro allo scornato che tanto nessuno avrebbe mai potuto competere con me.

Ed era vero, poveri mortali. Io ero messa peggio di Annie Wilkes in “Misery”.

Perché Dylan Dog non era solo un fumetto, era un'identità, e i motivi per cui mi piaceva non erano meramente estetici.

Intanto lui amava i mostri e i diversi, e io diversa la sono sempre stata e ho sempre amato quelli che nessuno amava. E questo dei mostri era uno dei punti cardine della serie (e della poetica di Sclavi in particolare).

Poi perché mi piaceva Dylan come personaggio: era anticonformista, eccentrico ed eclettico. Ma anche imbranato, divertente, sensibile e pieno di contraddizioni. E anche in questo rivedevo un po' di me (specie per la parte sulle contraddizioni). Più un antieroe che un eroe, e quindi tanto più affascinante. Era facile affezionarsi a lui, a un indagatore dell'incubo che soffriva di claustrofobia, di vertigini, e aveva il terrore di ragni e pipistrelli.

Poi mi piaceva la serie, da morire: impazzivo per il genere horror, ma non era solo una questione di splatter, quanto piuttosto di atmosfera, di catarsi, e di immaginazione. Come nelle intenzioni di Sclavi, il suo era un fumetto popolare, ma anche d'autore. E la differenza si sentiva, era enorme, rispetto alle altre testate Bonelli. Decisamente un altro livello.

E poi apprezzavo i continui e variati riferimenti culturali: a film, romanzi, pittori, poesie, canzoni... Espliciti o impliciti... Spesso coglievo l'omaggio, ma non ne conoscevo la fonte, quindi mi mettevo a cercare, a scartabellare, a chiedere, in un'epoca in cui Internet non c'era ancora. Ho scoperto un sacco di registi, autori, quadri e libri, così: Dylan era immensamente stimolante.

Poi apprezzavo i dialoghi, i momenti umoristici (non le barzellette di Groucho, che pure come personaggio mi è sempre stato caro) e ancor di più l'ironia e l'autoironia e i frequenti ribaltamenti di valori, che ci insegnano che non sempre il male è male e il bene è bene, ma che talvolta si confondono ed altre ancora basta spostare il punto di vista perché i poli si invertano.

La verità è che Dylan era un fumetto intelligente, raffinato, brillante, ma anche controcorrente, fuori dagli schemi. E la sua era una “filosofia” positiva, fatta di amore per il prossimo e ottimismo, nonostante tutto.

C'erano alcune storie, come il n. 41, “Golconda!”, divertenti, immaginifiche e grottesche, altre come “Morgana” e “Storia di Nessuno” (25 e 43) più malinconiche, mentre altre ancora erano più classiche come “L'alba dei morti viventi”... I filoni narrativi erano numerosi e capaci di arricchirsi e rinnovarsi.

Poi Dylan è cambiato.

E' diventato un fenomeno di costume, l'horror è passato di moda, e, ancor prima che Sclavi si allontanasse dalla serie, si è cominciato a calcare un po' troppo la mano esasperando quei motivi di pregio che erano tali soprattutto perché non venivano ostentati o esagerati, ma rimanevano tra le righe. Non immediati, ma per questo assai più sottili, più preziosi. Più potenti.

Pian piano Dylan si è trasformato in un personaggio stucchevole, con le lacrime in tasca, talvolta quasi fanatico nel propugnare i propri ideali, e si è passati da un fumetto anticonvenzionale ad uno conformista, addirittura banale, spesso forzatamente melodrammatico.

Mentre prima Dylan era vivo, sfuggente, e pieno di sorprese, ora è fossilizzato in un'immagine stereotipata che si è cucito addosso, e sta attento a non discostarsene, ricalcando pedissequamente sempre i medesimi passi, i medesimi atteggiamenti, ormai assurti a cliché.

Tanti lettori lamentano che le idee si sono esaurite, che la serie è andata avanti troppo a lungo. A mio avviso il problema è più radicato, non si tratta solo delle storie in sé (che in effetti sono ripetitive, insulse, verbose all'inverosimile, noiose, prevedibili, scontate), ma proprio nelle caratteristiche del personaggio che si sono semplificate, semplicizzate, sino a soffocarne la magia.

Ultimamente si parla di rilancio (processo già iniziato)... Personalmente, la mia speranza (vana, lo so) sarebbe che invece chiudessero la testata. Se non per rispetto, almeno come atto di pietà.

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