DYLAN
DOG
di Tiziano Sclavi
Un
fumetto che ho amato molto, nella stessa misura in cui poi mi ha
delusa. L'ho scoperto (grazie a Dany) prima che diventasse un
fenomeno di costume, quando a dirsi suoi fan eravamo in pochi, e l'ho
adorato in modo così disperatamente nerd che al Liceo conoscevo
tutti gli albi a memoria, in ogni battuta, dato tecnico, sfumatura.
In effetti all'epoca ero nota per questa mia passione malata, tanto
che, benché in gioventù fossi la classica studentessa che, malgrado
se stessa, tenta ad ogni costo di confondersi con la tappezzeria,
venivo quasi quotidianamente sfidata a chi ne sapeva di più da
compagni più grandi (quelli che quando era uscito il numero uno –
nell'ottobre 1986 – erano alle Medie e non alle elementari, e che
per questo si sentivano “più fan” di me). Naturalmente vincevo
sempre io, e di solito qualche mio compagno di classe (e si badi, non
è che avessi un rapporto idilliaco con loro) gridava dietro allo
scornato che tanto nessuno avrebbe mai potuto competere con me.
Ed
era vero, poveri mortali. Io ero messa peggio di Annie Wilkes in
“Misery”.
Perché
Dylan Dog non era solo un fumetto, era un'identità, e i motivi per
cui mi piaceva non erano meramente estetici.
Intanto
lui amava i mostri e i diversi, e io diversa la sono sempre stata e
ho sempre amato quelli che nessuno amava. E questo dei mostri era uno
dei punti cardine della serie (e della poetica di Sclavi in
particolare).
Poi
perché mi piaceva Dylan come personaggio: era anticonformista,
eccentrico ed eclettico. Ma anche imbranato, divertente, sensibile e
pieno di contraddizioni. E anche in questo rivedevo un po' di me
(specie per la parte sulle contraddizioni). Più un antieroe che un
eroe, e quindi tanto più affascinante. Era facile affezionarsi a
lui, a un indagatore dell'incubo che soffriva di claustrofobia, di
vertigini, e aveva il terrore di ragni e pipistrelli.
Poi
mi piaceva la serie, da morire: impazzivo per il genere horror, ma
non era solo una questione di splatter, quanto piuttosto di
atmosfera, di catarsi, e di immaginazione. Come nelle intenzioni di
Sclavi, il suo era un fumetto popolare, ma anche d'autore. E la
differenza si sentiva, era enorme, rispetto alle altre testate
Bonelli. Decisamente un altro livello.
E
poi apprezzavo i continui e variati riferimenti culturali: a film,
romanzi, pittori, poesie, canzoni... Espliciti o impliciti... Spesso
coglievo l'omaggio, ma non ne conoscevo la fonte, quindi mi mettevo a
cercare, a scartabellare, a chiedere, in un'epoca in cui Internet non
c'era ancora. Ho scoperto un sacco di registi, autori, quadri e
libri, così: Dylan era immensamente stimolante.
Poi
apprezzavo i dialoghi, i momenti umoristici (non le barzellette di
Groucho, che pure come personaggio mi è sempre stato caro) e ancor
di più l'ironia e l'autoironia e i frequenti ribaltamenti di valori,
che ci insegnano che non sempre il male è male e il bene è bene, ma
che talvolta si confondono ed altre ancora basta spostare il punto di
vista perché i poli si invertano.
La
verità è che Dylan era un fumetto intelligente, raffinato,
brillante, ma anche controcorrente, fuori dagli schemi. E la sua era
una “filosofia” positiva, fatta di amore per il prossimo e
ottimismo, nonostante tutto.
C'erano
alcune storie, come il n. 41, “Golconda!”, divertenti,
immaginifiche e grottesche, altre come “Morgana” e “Storia di
Nessuno” (25 e 43) più malinconiche, mentre altre ancora erano più
classiche come “L'alba dei morti viventi”... I filoni narrativi
erano numerosi e capaci di arricchirsi e rinnovarsi.
Poi
Dylan è cambiato.
E'
diventato un fenomeno di costume, l'horror è passato di moda, e,
ancor prima che Sclavi si allontanasse dalla serie, si è cominciato
a calcare un po' troppo la mano esasperando quei motivi di pregio che
erano tali soprattutto perché non venivano ostentati o esagerati, ma
rimanevano tra le righe. Non immediati, ma per questo assai più
sottili, più preziosi. Più potenti.
Pian
piano Dylan si è trasformato in un personaggio stucchevole, con le
lacrime in tasca, talvolta quasi fanatico nel propugnare i propri
ideali, e si è passati da un fumetto anticonvenzionale ad uno
conformista, addirittura banale, spesso forzatamente melodrammatico.
Mentre
prima Dylan era vivo, sfuggente, e pieno di sorprese, ora è
fossilizzato in un'immagine stereotipata che si è cucito addosso, e
sta attento a non discostarsene, ricalcando pedissequamente sempre i
medesimi passi, i medesimi atteggiamenti, ormai assurti a cliché.
Tanti
lettori lamentano che le idee si sono esaurite, che la serie è
andata avanti troppo a lungo. A mio avviso il problema è più
radicato, non si tratta solo delle storie in sé (che in effetti sono
ripetitive, insulse, verbose all'inverosimile, noiose, prevedibili,
scontate), ma proprio nelle caratteristiche del personaggio che si
sono semplificate, semplicizzate, sino a soffocarne la magia.
Ultimamente
si parla di rilancio (processo già iniziato)... Personalmente, la
mia speranza (vana, lo so) sarebbe che invece chiudessero la testata.
Se non per rispetto, almeno come atto di pietà.
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