IL
GATTOPARDO
di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Decisamente
meno impegnativo di quanto si potrebbe pensare a dispetto dell'inizio
un po' lento, scorre veloce, ammalia, incanta, e offre lo spaccato di
un'epoca al tramonto, vissuta con consapevole mestizia e con una
sottile, stanca, acuta rassegnazione dal sapore filosofico...
Il
protagonista è proprio lui, il gattopardo, il principe Fabrizio
Salina, rappresentante di un'aristocrazia decaduta, prossima a
lasciare il posto ad una classe in recente ascesa, la borghesia:
attiva, rozza, adattabile, vivace e ambiziosa.
Siamo
in Sicilia, agli albori del Regno d'Italia, seguiamo le vicende del
principe e della sua famiglia, analizziamo i tempi, li commentiamo, e
li vediamo spiegare i loro effetti, anche se in modi diversi, sui
protagonisti, sia che cerchino di sfruttarli per i loro fini, come il
nipote Tancredi, sia che scelgano di farsene dignitosamente
travolgere, come il nostro attempato eroe.
A
colpirmi, in realtà, non è stato tanto il principe, quanto le sue
riflessioni, il suo concetto di “sicilianità”, il suo stile
“gattopardesco” (che per molti versi sono la stessa cosa) e poi,
a livello più emotivo, il crudele triangolo amoroso tra Tancredi,
Concetta, la figlia altera e raffinata di Fabrizio, e Angelica, ricca
e dalla bellezza prorompente, dalla sensualità impetuosa, affrontato
con pragmatismo e senza troppi drammi, seppur con qualche vampata di
fuoco, e la figura quasi macchiettistica del padre di Angelica, Don
Calogero Sedara, che per molti versi risulta essere l'antitesi del
gattopardo...
Anche
stilisticamente il romanzo è notevole. Per il frasario ricercato,
per il lirismo che lo pervade, per il gusto stesso della narrazione,
che infonde calma e placidità, riuscendo a dipanarsi fra i meandri
della storia come nelle profondità dell'animo umano, criticando e
facendo autocritica.
Tuttavia,
per amor di cronaca, segnalo alcune critiche avanzate dalle mie
colleghe: alcune avventatesi contro l'eccessivo maschilismo del libro
e del principe, in particolare: addirittura si sono dichiarate
oltraggiate e si sono prodotte in smorfie di disgusto. Non nego che
il maschilismo ci sia e che tale mentalità retriva dispiaccia, ma,
diamine!, siamo nell'alveo del romanzo storico, nella Sicilia
ottocentesca, non è che le donne avessero tutta questa indipendenza
di azione o pensiero! Non è che il quadro che ne dipinge il nostro
autore non sia realistico. Che si aspettavano?
Altre,
invece, si sono arrese alle prime pagine, trovando il libro
“pesante”. Certo, se non si è tipi da farsi rapire dalla prosa o
dalle descrizioni, capisco che la scena del funerale possa risultare
un po' monotona, ma basta superare le prime pagine (prime 50, più o
meno) per farsi assorbire dalla narrazione, sino al punto che si
fatica a staccarsene. A volte è solo questione di avere la giusta
disposizione d'animo...
Se
l'avete, approfittatene!
E la cosa brutta è che una della frasi, parafrasate, più famose di questo libro "cambiare tutto per non cambiare niente" a distanza di quasi sessant'anni è ancora estremamente attuale. Povera Italia!
RispondiEliminaConcordo tristemente.
RispondiElimina