IL
DIO DELLE PICCOLE COSE
di
Arundhati Roy
Una
storia d’amore che, se fosse ambientata nell’Europa
contemporanea, sarebbe al massimo un po’ travagliata, ma che
invece, nella realtà dell’India anni ’60, è soprattutto
pericolosa e irta di dolore.
Ricostruita
attraverso gli occhi ingenui di due gemellini, Esta e Rahel, ci apre
le porte di un mondo nuovo, purtroppo dominato da convenzioni,
pregiudizi e perbenismo.
Poetico,
sfuggente, profondo e stratificato, il romanzo risulta ancora più
avvincente grazie alla trama non consequenziale e al generoso uso dei
flashback.
La
fine è già nell’inizio, ma ugualmente la vicenda si dipana
sorprendendoci (specie nel finale) e incuriosendoci, aprendo
digressioni, ampliando e riducendo la prospettiva, addizionando
fatti, riflessioni, pensieri, intimi e ineffabili, in uno stile
ammaliante e personalissimo, fatto di termini indiani e atmosfere
rarefatte.
Non
ci si limita a narrare degli sventurati amanti, che sono solo il
nucleo centrale e più drammatico in cui vari intrecci (o parte di
essi) convergono… La trama, quasi di dimensioni epiche, coinvolge,
infatti, l’intera (e per lo più detestabile) famiglia di Amnu
(madre dei due bambini e incauta innamorata protagonista del libro),
e anche l’India in generale, con le sue ricchezze e le sue
contraddizioni, il suo ieri e il suo oggi, in un universo tattile e
poliedrico che è emozionante scoprire.
Suggestivo.
E
triste.
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